“Pensare all’immortalità del granchio”, espressione tipica nei paesi del Sud America e corrispettivo dell’italiano “sognare a occhi aperti”, indica come una certa persona lasci vagare la propria mente in modo proattivo nella contemplazione del futuro. La frase, ormai caduta quasi del tutto in disuso, richiama l’attenzione a un’oralità che si dissipa e frammenta sempre più verso le periferie di una tradizione verbale tramandata di generazione in generazione. Eredità culturale feconda sulla quale il duo italoamericano composto da Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis opera un tentativo di preservazione storica e artistica. Una filmografia che si articola tra leggende ed etnografia contadina e che mostra già nel film precedente della coppia, Il Solengo, come il proferire parola di una comunità montana di cacciatori imbastisca e influenzi la struttura narrativa dell’opera, assecondata dai registi tramite il posizionamento di un punto di vista assertivo nel trovare giusta distanza dalle testimonianze dei personaggi.

Ne Il Solengo infatti tutto verte attorno al protagonista, Mario de Marcella detto il solitario, outsider in un microcosmo nelle valli della Tuscia imputato in un processo colmo di contraddizioni e verità inaffidabili, e allo stesso modo in Re Granchio, quegli stessi cacciatori narrano di Luciano, l’ubriacone di un villaggio contadino dell’800. Ma Luciano é solo un ubriacone? Un matto forse? Questa volta i vettori non puntano più al solo emarginato. I fatti noti al gruppo si esauriscono e ben presto subentra l’esercizio dell’immaginazione. La distanza temporale (i due secoli che intercorrono tra il presente del prologo e un passato rurale e selvaggio) favorisce la costruzione dei registi contribuendo al deformarsi di un ricordo inesorabilmente sfilacciato rispetto l’attinenza al reale, un reale da cui la leggenda di Luciano si distanzia sin dalle prime sequenze: il ritrovamento di un manufatto d’oro etrusco seguito poi dalla rottura di un sigillo; un portone chiuso a chiave sopra il quale la macchina da presa sorvola libera; un passaggio interdetto da un fantomatico principe che non si vede mai e che agisce nell’ombra. Queste conflittualità oniriche, intrecciate con l’accennato rapporto d’amore tra Emma, una popolana del luogo, e Luciano, si intensificano e si impersonificano nel rifiuto di un bacio, nell’immergersi dei due tra le fronde campestri e in una pozza d’acqua, nel recupero di quel bacio prima mancato in cui si insidia lo sguardo geloso di Severino, padre di Emma. La tensione crescente alimentata dall’irascibilità del protagonista verso la legge conduce all’evento chiave che recide in due il lungometraggio: l’incendio per mano di Luciano del portone sul quale era stato posto il veto che a sua volta infiamma lo stemma nobiliare sopra di esso. Un ardore prefigurante la febbrile corsa all’oro che dirotterà il film in uno spazio se possibile ancora più ostile e desolato (che ci riporta con afflati forse un po’ troppo derivativi a Jauja di Lisandro Alonso), verso la presunta terra mitologica dell’abbondanza e della felicità.

“Un uomo che ha ammazzato dove va?” Chiede un farabutto a Luciano. Il nome del secondo capitolo dà la risposta: “in culo al mondo”.

Se nella prima parte il film si apre costantemente verso un attrito recitativo tra attori professionisti e non, interrogandosi costantemente sulla sospensione dell’incredulità spettatoriale, nel secondo segmento la finzione si fa genere in un western sozzo e ascetico. Una banda di prospector avanza nei campi lunghi della pampa Argentina. Filibustieri dalle barbe pregne di sale marino dai quali Luciano, che ora si fa chiamare Antonio María de la Vera, viene catturato e sfruttato come guida per la caccia a un tesoro perduto.

Luciano ha trovato la sua nuova identità nella figura di un prete, un fedele del divino manifesto di un crostaceo, un granchio che racchiude in sé quell’unio mystica indispensabile al protagonista per redimersi dal proprio passato. “Il granchio è il compasso e io sono la mappa”, dice Luciano, che non beve da 5 anni, non dopo l’eucarestia che lo trasforma in cristo risorto poco prima del fattaccio di Sant’Orsio. Ma la redenzione sfugge. L’esplosione di un colpo di fucile deflagra il presunto compasso divino. “Stai pensando all’immortalità del granchio?” Uno sparo che è frase pronunciata per risvegliare il sognatore dal proprio deliquio.

Fuoco e acqua agiscono come conduttori. Il primo è veicolo del ricordo del proprio peccato e non a caso Luciano si trova in esilio, costretto all’espiazione purgatoriale nella Terra del Fuoco. La seconda è legame fluido che rende possibile all’uomo il travalicare spazio e tempo. Fluidità anche sonora, musicale, che permea l’opera di flauti, ottoni e lamentose canzoni popolari che tanto informano la narrazione e il profilmico quanto li slegano da qualunque temporalità ben definita. Del resto le prime forme di vita, unicellulari, si sono create proprio negli oceani primordiali che da sempre chiamano a sé la propria progenie attraverso lo sciabordio delle onde contro la spiaggia. E forse, proprio perché epurato da qualunque sostanza alcolica o terrena bramosia che scorreva nel suo corpo e nella sua anima, a Luciano, perso più che mai, è concesso l’idillio finale.

“Fra tutte le immortalità, io credo solo
nella tua, amico granchio.
La gente ti schiaccia,
ti getta nell’acqua bollente,
allaga la tua casa.
Ma la tortura e l’afflizione
non servono a niente, a niente.

Non tu, infimo granchio,
breve inquilino del tuo carapace, essere mortale,
fugace creatura di carne che trema fra i nostri denti;
non tu, ma la tua specie eterna: gli altri:
il granchio immortale
occupa la spiaggia.”

Los trabajos del mar, José Emilio Pacheco