Da te, 2000 anni fa

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“Non si abita un paese, si abita una lingua. Una patria è questo, e niente altro.”

Emil Cioran

Ma se ci venisse privata la libertà d’abitare tale lingua? Se fossimo costretti a mettere in sintonia la nostra patria con quella altrui? Lo smottamento emotivo – e sonoro – che deriverebbe nel trovare risposta a tali domande non sarebbe così dissimile dalla ricerca, quasi un’investigazione, compiuta dalla protagonista dell’ultimo film di Apichatpong Weerasethakul. Jessica, expat scozzese coltivatrice di orchidee, fa visita alla sorella malata in un ospedale di Bogotà. Durante la permanenza però il suono di un violento rimbombo la perseguita, estraniandola sempre più dalla realtà che la circonda. Questo senso di alienazione, apicale quando Jessica stentatamente metabolizza d’aver conosciuto una persona che potrebbe non essere mai esistita, ci cala appieno nella prospettiva dalla quale l’opera ha visto la sua genesi. Memoria è il film di un autoesiliato politico, allontanatosi da una Thailandia sempre più autoritaria, regime militare per il quale la censura resta ancora un’arma lecita da scagliare contro la libera espressione – come già avvenuto per il regista thai nel 2007 con Syndromes and a Century.

Per la prima volta al di fuori della propria patria, al suo debutto in lingua inglese (espressione guarda caso sempre americanocentrica quando si parla di cinema), Apichatpong approda in Colombia per intessere un thriller acustico fatto di ossessioni ricorsive, il disturbo del sonno ad esempio, e rinnovate apprensioni animistiche. Tra queste la componente spirituale e religiosa è qui condotta nel campo della pseudoarcheologia, anche chiamata archeologia misteriosa, e più precisamente alla paleoastronautica, vale a dire il complesso di teorie che ipotizzano un contatto tra civiltà extraterrestri e civiltà umane, tra le quali anche quelle pre-colombiane, e non é certo un caso che il regista abbia scelto un simbolo del colonialismo europeo delle Americhe come luogo nel quale piantare, come fosse un seme, il velivolo la cui messa in moto genera il rumore che tormenta il sonno di Jessica.

Un tormento, trascendente come solo il suono sa essere, che non appena rappresentato evoca sì un fortissimo senso di arcaica appartenenza, ma anche un’altrettanta intensa reazione di svalutazione del reale, proprio a causa della finitezza di fronte alla quale ci si trova al cospetto. Il suono che abita Memoria e la mente di Jessica é, o perlomeno vuole essere, una matrice comune alla quale ricondurre lingue e patrie, un motore capace di discioglierne i confini, catapultando il cinema del thailandese in un pre world cinema finalmente apolide e libero dalle gabbie conglomeranti di un colonialismo – condotto dal sistema americano o dal Regno di Thailandia poco cambia – che vuole gli schermi come territorio di conquista piuttosto che liberazione. [Davide Palella]


Tutto ciò che è estraneo all’umano

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Si parla spesso e con inflazione di corpi action: corpi che fanno l’azione e la reggono, trasformandola in connotato divistico e momento di visione. Non si parla invece mai di corpi dell’horror, corpi attoriali che portano dentro all’immagine, qualsiasi essa sia, una tonalità che minaccia e inquieta, comanda attenzione e toglie certezza. Tilda Swinton è esattamente questo, un corpo horror; lo aveva chiarito Guadagnino (che cos’è il suo Suspiria se non un lucidissimo gesto critico, una forma di politique des acteurs in grado di liberare l’inquietudine compressa nel corpo della propria attrice feticcio) e lo conferma ora Apichatpong, che ha pensato Memoria proprio sul corpo di questa attrice. E Memoria non a caso, sotto sotto, è un horror: non tanto perché ruota intorno a un suono di incomprensibile provenienza che terrorizza con la forza di un jumpscare metafisico, ma perché è pensato come il sequel concettuale di un altro horror.

Lo scrive il regista in una lettera programmatica diretta proprio a Tilda Swinton, dove dice che “il personaggio di Jessica, la protagonista spaventata dal suono, è ispirato al personaggio omonimo dell’horror di Jacques Tourneur Ho camminato con uno zombie; di più, è quel personaggio”. Memoria eredita la grafia con cui Tourneur trascriveva il soprannaturale in immagine: non esagitato sconcerto per il mostruoso o attaccamento ingenuo allo spavento, ma sensazione di continuo cedimento della realtà, vertigine di fronte all’abisso del senso.

Del film del 1943 il regista tailandese ritrova la messa in discussione di ciò che pare pacifico – “Tutto sembra bello finché non si è capito bene: quest’acqua luminosa riesce a brillare per la putrefazione di milioni di corpi morti, non c’è bellezza qui, solo morte e marciume” dice un personaggio in merito al luogo tropicale in cui si svolge l’azione; ritrova il carattere sinistro di ciò che è luminoso e l’improvviso venire a vita di quanto prima era solo natura morta – entrambi i film, immersi nella descrizione della natura, a momenti si comportano come un insieme di immagini fermentate, poemi fatti di batteri che pulsano fino allo sfinimento.  Ritrova soprattutto, al centro di tutte queste prospettive dell’invisibile, il corpo, segno, traccia, “antenna” dell’estraneità che improvvisamente fa breccia nel mondo. Il corpo sente ciò che non lo riguarda, tutto ciò che non è cosa sua, e si lascia infestare da esso. Tilda Swinton è in questo senso il trauma vivente provocato dall’incomprensibilità del mistero, il suo volto la casa del fantasma, i suoi occhi il teatro in cui si agita l’alieno. Come fulmine impazzito il suo corpo elettrico piomba nella scena per lasciare una crepa, e poi si adagia, lasciando nell’aria il rimbombo di un orrore che permane e fiorisce. [Leonardo Strano]


Inerte

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Sì, mi ricordo quella parete

nella nostra città rasa al suolo.

Si ergeva fin quasi al sesto piano.

Al quarto c’era uno specchio,

uno specchio assurdo

perché intatto, saldamente fissato.

Non rifletteva più nessuna faccia,

nessuna mano a ravvivare chiome,

nessuna porta dirimpetto,

nulla cui possa darsi il nome

“luogo”.

Era come durante le vacanze –

vi si rispecchiava il cielo vivo,

nubi in corsa nell’aria impetuosa,

polvere di macerie lavata dalla pioggia

lucente, e uccelli in volo, le stelle, il sole all’alba.

E così, come ogni oggetto fatto bene,

funzionava in modo inappuntabile,

con professionale assenza di stupore.

 

Lo specchio, Wisława Anna Szymborska

 

Tutto nel cinema è fuori campo. Le azioni, i personaggi, le storie che passano attraverso la cornice di un’inquadratura sono estratti di qualcosa di più grande che ha luogo altrove. La memoria, i ricordi, hanno a che fare con il cinema nella misura in cui si identificano con il fuori campo dell’occhio: immagini morte che ci provocano con la nostalgia, comunicandoci che tutto ciò che conta, nel bene e nel male, è già stato. Per questo in Memoria Apichatpong (ndr. non si capisce perché quando lo citiamo lo chiamiamo sempre con il nome e non con il cognome) sposta il centro sul suono e marginalizza l’immagine. I suoi soliti quadri fissi e dilatati non sembrano più depositari di un mistero che attende la meraviglia, ma cornici della cenere che un tempo era incendio divampante, un’immagine che non si muove più perché si è già mossa fin troppo.

L’unica possibilità, l’unica possibile, è l’altro da sé. Una possibilità che appare però talmente lontana da essere fantascientifica, trasportata da un mezzo inverosimile da immaginare, che piomba nella messa in scena come qualcosa di inappropriato.  Ma è solo attraverso questa inverosimiglianza che questa immagine potrà tornare a correre, anche se nessuno sa dove.

Non credo che quello visto in Memoria sia manierismo, credo piuttosto che sia consapevolezza della difficoltà di immaginarsi qualcosa di nuovo su uno schermo talmente bombardato da input di formati, dimensioni, velocità, da sentire per esclusione il bisogno inerte di spostarsi oltre quell’idea di estensione che possa essere ricompresa in un elemento che conosciamo, in cui possiamo identificarci o specchiarci, un oltre che sembra essere l’unica via per far resuscitare un’arte che non può più essere contaminata, ma solo rivoluzionata dalle fondamenta.

Questa rivoluzione non c’è in Memoria, non vuole esserci, ma ci mostra la via, una soglia che è necessario varcare prima che la porta si chiuda, che quel suono così atonale, così irraggiungibile, smetta di risuonare ciclicamente nei nostri padiglioni auricolari, lasciandoci soli a rimestare sempre negli stessi errori, verso un futuro che non smetterà mai di rimpiangere il passato, non si sa bene perché. [Mario Blaconà]