Che il cuore di Tengo sueños eléctricos sia la banalità – ovvero l’ordinarietà – della situazione narrata, Valentina Maurel, premio per la Regia a Locarno75, lo dichiara con estrema evidenza sin dalle prime immagini. Una famiglia in automobile, la macchina da presa ad altezza sedile posteriore, uno sguardo impietoso rivolto agli adulti che siedono davanti. Si torna all’abitacolo come riflesso di equilibri e squilibri affettivi, e dunque a un cliché del coming of age d’autore e del dramma familiare di questi anni. Esordio al lungometraggio della regista costaricana, Tengo sueños eléctricos ha tuttavia il coraggio di offrire come tale questo incipit abusato, procedendo con un’ellissi e arrivando direttamente al dunque: la scontata separazione dei coniugi e l’inevitabile collasso della piccola comunità familiare. È uno spazio importante questo vuoto narrativo, perché risuona come un “sapete già come andrà a finire” che riguarda tanto le storie che vediamo al cinema – sempre più simili, sempre più sclerotizzate attorno agli stessi immaginari, alle stesse questioni, agli stessi dolori – quanto quelle che viviamo nella realtà, dove quotidianamente relazioni e progetti di vita si sciolgono, e la violenza domestica, se non notiziabile, può passare per naturale ordine delle cose.

È dunque da qui che parte la sfida di Valentina Maurel: immergersi in un vissuto reso ancora più ordinario dal ceto medio che fa da sfondo, per trarne una forma cinematografica in sorprendente equilibrio tra slancio autoriale e genere, tra verismo e deformazione mentale, tra scandaglio in terza persona di una psicologia e pura e immediata esplosione di una soggettività. La lente scelta per esaminare una situazione piccola nella sua prevedibilità è lo sguardo irrequieto di e su Eva, la figlia maggiore. Una sedicenne che sta scoprendo i propri desideri e che, al bivio tra due possibilità di crescita, opta per la più pericolosa e improbabile, seguendo le orme del padre violento. Poeta fallito, l’uomo rifiuta le proprie responsabilità per aggirarsi goffamente tra cenacoli letterari e vizi di varia natura, inseguendo ciò che nella vita gli è mancato. Ancora più doloroso e muto è l’inseguimento di Eva verso il genitore, segnato da una fascinazione che non si placa nemmeno di fronte alla brutalità, al dolore fisico, al rifiuto. Anzi, sono proprio la fragilità e l’incapacità di sostenere i confini che la vita impone ad alimentare il riconoscimento e, quindi, l’amore.

Pur esibendo tutte le più ovvie risonanze mitologiche sul rapporto tra padri e figli, Tengo sueños eléctricos riesce sempre a fermarsi un attimo prima dei bilanci morali, della chiusura allegorica, lasciando lo spettatore a confrontarsi semplicemente con la corrente di emozioni, di pensieri proibiti e di insensate empatie che lo attraversano. In uno dei momenti più intensi, è la musica a fare da argine, volgendo improvvisamente in commedia umana la deriva tossica della relazione. E così, i musicisti che irrompono su una scena di caos e dramma, isolando per un istante padre e figlia dal mondo, hanno l’effetto delle deviazioni tonali che Maren Ade utilizzava in Vi presento Toni Erdmann, quando l’estemporaneo interveniva sull’ordinario per sciogliere i non detti, allentare gli schemi narrativi e portare alla sospensione del giudizio. In particolare sono i tabù – lo spettro dell’incesto, il potere seduttivo della violenza – il materiale che Maurel riesce a maneggiare meglio, facendolo danzare con leggerezza tra frammenti di prime esperienze, fantasie, ma soprattutto tra la concretezza della carne e le superfici domestiche tra cui i personaggi si ritrovano ogni volta incastrati, come fossero in perenne collisione con la realtà.

Anche se oggi può sembrare un’espressione sprezzante, Tengo sueños eléctricos non si vergogna di essere un film di personaggi, che non potrebbe vivere senza l’irregolarità della sua protagonista Daniela Marín Navarro e l’implacabile presenza fisica di Reinaldo Amien Gutiérrez, entrambi premiati come migliori interpreti dalla giuria di Locarno. Ma è anche un film che sa mettere cinematograficamente in tensione questi personaggi, rendendoli palpabili nel fuori campo, facendone percepire i desideri nei silenzi, costruendo tra loro, grazie al lavoro di montaggio più che alla regia, delle dinamiche e dei movimenti che sono come quelli della vita. Non perché fedeli alla realtà, ma perché altrettanto imprevedibili e tellurici. Semplice come la storia che racconta, abbastanza intelligente (furbo?) da regalare al pubblico un paio di sequenze di irresistibile tenerezza, Tengo sueños eléctricos assume con fede quasi religiosa una delle verità più elementari del cinema e della grammatica delle immagini. Ovvero, che disgiungere può voler dire unire. Che un taglio di montaggio o una ferita possono avvicinare. Anche quando ci sono dei finestrini a impedire il contatto, anche quando la vita non lo consentirebbe.