La struttura narrativa di Margini si sostanzia basilarmente in un viaggio, un viaggio da commedia dell’assurdo di tre eroi tra le difficoltà della provincia, in cui l’organizzazione di un concerto si fa strumento per esaminare le dinamiche sociali di un luogo dormiente e perennemente in crisi. Ma l’ilarità che provoca questa commedia non è mai meschina né giudicante.

L’opera prima di Niccolò Falsetti, in concorso alla Settimana della Critica, racconta di Michele, Edoardo e Iacopo, tre amici alle soglie dell’età adulta, e della possibilità per il loro piccolo gruppo punk di aprire a Bologna il concerto di una famosa band statunitense, i The Defense. Quando il concerto salta, i tre decidono di far suonare i The Defense a Grosseto, organizzando così l’evento più insolito che la piccola città di provincia abbia mai visto.

La scrittura del film non si muove (per fortuna) a tesi, e riesce così a non forzare i significati, non dimenticando l’umanità dei personaggi che costellano Grosseto solo per poter affermare un messaggio politico. La necessità di andare via, o di cambiare quel luogo in cui non succede mai niente, non è accompagnata da un sentimento di odio o di scontro, e il conflitto è un conflitto comicamente assurdo nella sua impossibilità di individuarne cause o responsabili. Non è di certo colpa del patrigno di Edoardo se gestisce una balera ferma agli anni ’80, né colpa dell’impiegata del comune se le sale comunali ospitano solo serate del centro anziani. Sembra non esserci nessuno con cui potersela prendere, con cui potersi sfogare, e anche il punk, alla fine, si mostra un lieve palliativo all’impossibilità di lottare, di rivoluzionare e di sconvolgere.

La regia di Falsetti mette in mostra con estrema semplicità ma originalità questo sentimento: i campi lunghi e lunghissimi, strumenti necessari per affermare con ironia la strana posizione nel mondo della provincia italiana, danno risalto a un’architettura urbana decadente: dall’edificio della questura alle sale comunali bianche e spoglie, dal locale Eden che spara bolle di sapone in pista alle case ben curate, unico rifugio della borghesia più ricca. I corpi rivoluzionari e movimentati del punk vengono immersi nella stasi placida della città di Grosseto, e vengono così destinati a dare vita a uno scontro inevitabile, ma che tuttavia non porterà da nessuna parte.

In un terzo atto che non consola né eroicizza, l’all is lost rimane tale, e nell’ultima scena, un lungo camera car in cui suona una cassetta di Massimo Ranieri, i pezzi rimangono sparsi, e anche se il concerto si è fatto, ormai è finito e non ha lasciato niente, se non la solita immobilità del principio. “Wait for nothing”, come il nome della band.

Margini è un film che guarda con dolorosa nostalgia a un mondo che da quel 2008 in poi continua lentamente a estinguersi, e che con emotività e umanità lascia intravedere lo sguardo di un regista che domanda con sincerità al suo spettatore: dove vogliamo andare? [Emanuele Tresca]


Il sacrificio del privato

Blue-Jean-2022-Georgia-Oakley-02

Secondo Erving Goffman, la rivendicazione dell’intimità è condizione imprescindibile allo sviluppo dell’identità individuale di ognuno. È in quest’ottica che, attingendo al lessico teatrale, delinea l’idea del retroscena: uno spazio personale e inviolabile, nel quale ritirarsi per abbandonare il controllo sulle impressioni e liberarsi dai lacci delle convenzioni sociali, prima di tornare alla ribalta.

L’inaccessibilità del proprio retroscena sembra essere la precipua necessità della protagonista di Blue Jean, un’insegnante di educazione fisica nella Gran Bretagna tatcheriana di fine anni Ottanta, lesbica non dichiarata all’alba dell’approvazione di una legge che mette sullo stesso piano omosessuali e pedofili, entrambi colpevoli di condurre uno stile di vita “deviato”. L’identità di Jean, dunque, è scissa in due: di giorno docente schiva e riservata, di notte accorta frequentatrice della fosca vita notturna omosessuale di Newcastle. La dualità del suo mondo si riflette in una messa in scena che predilige gli interni agli esterni, restituendo il perpetuo senso d’occlusione che tormenta la protagonista, costretta a misurare ogni sguardo, ogni tocco, nel terrore di essere scoperta.

Al suo esordio, la regista e sceneggiatrice Georgia Oakley sceglie di girare in 16 mm, servendosi di un linguaggio visivo che si rifà dichiaratamente al cinema classico. Strumento privilegiato è il primo piano, che attraverso campi e contro campi ha il compito nodale di mettere in evidenza lo spazio tra i corpi. Lo stesso spazio che divide le alunne di Jean durante le partite di netball, variante al femminile della pallacanestro, nel quale non è prevista alcuna forma di contatto. La fisicità, d’altronde, è prerogativa degli uomini.

Proseguendo la tradizione loachiana, Oakley offre un quadro lucido della situazione politica e sociale del Regno Unito nel 1988, attraverso una storia che si muove, di contro, su un piano del tutto privato. Jean non è un’attivista, sebbene quegli anni fossero caratterizzati da un profondo senso di solidarietà tra gli appartenenti alla comunità, e non vive la propria sessualità alla luce del sole. La conseguenza è una frammentazione dell’Io che la porta a comportarsi in maniera differente in famiglia, a scuola, o nel bar gay che frequenta assieme alla fidanzata Viv, compartimenti stagni che tenta strenuamente di mantenere separati.

Come in un’infinita partita di netball, Jean è sempre attenta a non spingersi oltre, a non fare passi azzardati, cristallizzata in una stasi dalla quale, a un certo punto, è costretta a destarsi. L’equilibrio precario nel quale i mondi di Jean continuano a sussistere senza intersecarsi, infatti, viene a mancare quando la protagonista è chiamata a svelare il proprio privato per prendere le parti di una delle sue alunne, anch’essa omosessuale.

Georgia Oakley dunque pone l’accento su una questione estremamente attuale, che il rapido sviluppo dei social network, con la conseguente e forse non pienamente consapevole rinuncia del privato, ha reso impossibile da ignorare: l’opposizione tra la privacy e la responsabilità individuale.

Negli anni in cui l’attivismo si è spostato online, divenendo molto spesso sinonimo di condivisione del vissuto personale, è impossibile non sentirsi in qualche maniera coinvolti. Fino a che punto quindi è accettabile rinunciare all’impenetrabilità del proprio retroscena per contribuire alla nascita di una nuova consapevolezza? E che responsabilità abbiamo nei confronti di chi arriverà dopo? [Valentina Pietrarca]