Sonne

Yasmin: “Sono Curda”

Bella: “Sono mezza Jugoslava”

Nati: “Sono Austriaca” 

Quanto l’immagine con cui ci presentiamo al mondo è parte integrante della nostra identità? In Sonne (Austria, 2022) di Kurdwin Ayub, vincitore del 34° Trieste Film Festival, per tre adolescenti alle porte dell’età adulta e che iniziano a confrontarsi con le proprie origini, la rappresentazione attraverso i social media è un’estensione vera e propria non solo di sé, ma anche della realtà con cui il sé si relaziona. Le tre protagoniste viennesi – Yasmin, Nati e Bella – filmano un videoclip sulle note di Losing My Religion indossando il burqa da preghiera della madre di una di loro. Il video diventa virale, portandole a essere intervistate su un canale nazionale e a eseguire performance dal vivo della canzone dei REM per matrimoni e centri culturali della comunità curda.

In Sonne, i video caricati sui social costruiscono una mediazione metanarrativa essenziale ad accedere alla complessità dei personaggi. Questi video, inframmezzati alla storia lineare, compongono quasi un terzo del film. A volte sono consequenziali alla trama, come per il video che rende le ragazze famose o per il fratello di Yasmin, Karim, indagato dalla polizia per avere sgozzato un maiale in diretta. Più spesso però i video permettono allo spettatore una visione privilegiata: i personaggi si confrontano con un’immagine di sé deliberatamente costruita ma di cui al tempo stesso sembrano non avere controllo.

La regista Kurdwin Ayub costruisce una storia in cui la religione musulmana e in particolare l’utilizzo dell’hijab sono ereditati dalla giovane austriaca figlia di immigrati Iracheni-Curdi come parte di un lessico famigliare più che come rigido simbolo politico-culturale. Yasmin gioca con le amiche utilizzando i burqa come travestimento, rimane allibita dalla retorica dell’amica Nati che durante l’intervista in TV parla di “ispirare le giovani ragazze col velo a potersi divertire”, e infine sceglie di toglierlo nel corso di una performance non in segno di rifiuto per la propria cultura, ma come provocazione. Toglie un indumento per “travestirsi” e mostrare alle sue amiche che quel giorno i ruoli saranno invertiti – ruoli non sociali ma arbitrari, dati dalle dinamiche della loro amicizia e della presentazione di sé al pubblico dei social. Il velo diventa così uno strumento con cui Yasmin frammenta e reintegra quei pezzi che dovrebbero costituire la sua identità. Quello di Yasmin, Bella e Nati è un gioco, e l’identità per loro non è altro che una costruzione da esplorare e comporre. [Camilla Zurru]

Metronom 

Nel movimento di macchina iniziale di Metronom (Romania, 2022), esordio alla finzione del documentarista Alexandru Belc che gli è valso il premio alla miglior regia nella sezione Un Certain Regard di Cannes, è contenuta in nuce l’essenza dell’opera. Due giovanissimi amanti, Ana e Sorin, si danno appuntamento in una piazza di Bucarest per decidere del loro futuro. È il 1972, e sulla Romania soffia il gelido vento delle Tesi di Luglio: se durante gli anni Sessanta lo stato aveva vissuto un incrementale sviluppo ideologico, coerente con il clima politico di disgelo e supportato dall’arrivo del Partito Comunista Rumeno, nel 1971 Ceausescu fa dietrofront, violentando l’autonomia culturale con una riforma neostalinista. Belc riassume questa fredda austerità in un iniziale carrello sul bassorilievo che racconta la guerra per la libertà del paese. Ana è già arrivata e aspetta Sorin: il ragazzo è prossimo alla coscrizione in Germania che lo separerà dalla sua amata. La camera riprende l’incontro senza però indugiarvi: dopo un fugace bacio, i due giovani corpi escono di scena, lasciando spazio all’imponente monumento ai caduti della Romania. Su questa tensione, che oscilla tra la questione politica rumena del 1972, colossale e incomprensibile, e la scoperta dell’amore e del tradimento, si costruisce il film.

Ma poi, come suggerisce il titolo, c’è il Rock’n’roll. È proprio il programma radiofonico Metronom, in onda su Radio Europa Libera, che rende possibile la trasmissione di Beatles, Hendrix, Jim Morrison e tanti altri: artisti e canzoni messi all’indice perché considerati contro il regime di Ceausescu, ma vero e proprio grido ribelle di una generazione. Attraverso la musica Ana cambia, sboccia. Durante la festa da Roxana – scena madre del film in cui i giovani studenti si trasformano in giovani dissidenti scrivendo una lettera a Cornel Chiriac, carismatico leader dell’amato programma radiofonico – la protagonista si sveste dell’impersonale divisa scolastica e indossa un abito magenta che le rimarrà anche durante la lunga notte in questura, dove verrà torchiata dalla Securitate. La musica è lo strumento su cui si costruisce la disobbedienza civile dei protagonisti: l’unico a non ballare è Sorin, che rimarrà per sempre prigioniero dei suoi indumenti grigi.

Con Metronom, Alexandru Belc fa confluire quello che è un iniziale coming of age in un più grande racconto sulla sua nazione oppressa, sulla repressione della libertà e sui tentativi di cambiare le cose, purtroppo infruttuosi. A nulla è valsa la resistenza di Ana di fronte ai commissari: il suo amato dovrà partire, Chiriac verrà ammazzato, la dittatura durerà altri diciotto anni. [Andrea Piemonti]

Butterfly vision

Una ripresa aerea da un drone militare apre l’esordio del regista ucraino Maksym Nakonechnyi Butterfly Vision (Ucraina, Repubblica Ceca, Croazia, Svezia, 2022), finalizzato all’alba dell’invasione russa del febbraio scorso e presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes. Così il regista racchiude simbolicamente le sue intenzioni, con effetti visivi che rimandano ai mezzi ipertecnologici utilizzati in guerra e che continuano ad avere un impatto straniante sullo spettatore, disorientato dall’estetica che nella sua esperienza appartiene al videogioco e dal rapido passaggio da una visione aerea, asettica e distante, oltre che neutra – chi è il nemico? Dov’è la linea del fronte? – a quella del corpo della protagonista Lilya, vero terreno di conflitto.

Lilya, interpretata dalla magnetica Rita Burkovska, è un’ufficiale ucraina addetta alla ricognizione aerea militare appena liberata dalla prigionia da parte delle forze filorusse. Accolta come un’eroina, e lungamente attesa dal marito e dalla madre, Lilya è ormai una donna spezzata. La scoperta dolorosa e scomoda di essere incinta di uno dei suoi rapitori segnerà la rottura irreparabile con il marito Tokha, che nel frattempo si è unito a un gruppo paramilitare di estrema destra, e il progressivo sfaldarsi dei suoi rapporti personali.

Utilizzando un linguaggio visivo ibridato dalle incursioni di farfalle pixelate, video social e riprese televisive, a volte efficace e misurato, altre più sbavato e ripetitivo, Butterfly vision convince soprattutto nella sobrietà di una regia che sa osservare le ferite sul corpo di una donna senza trasformarla in un guscio vuoto, raccontando qualcosa che non è nuovo – lo stupro come arma di guerra – senza mai vittimizzare la sua protagonista. Si sente forte e chiaro, infatti, che il regista Maksym Nakonechnyi, premiato come produttore di This Rain Will Never Stop al Festival dei Popoli, ha lavorato alla sceneggiatura del film con la regista Iryna Tsilyk, autrice del documentario The Earth Is Blue as an Orange (Ucraina, Lituania, 2020) sulla vita di una famiglia nella zona di conflitto del Donbass.

Lilya vive il trauma sulla sua pelle segnata dalle cicatrici e lo rivive nella sua quotidianità – ad esempio nei sogni, presto avveratosi nella realtà, sulla sua città occupata dalle forze russe. Ma, oltre che una donna, Lilya è un soldato, che fa fatica a vivere nel mondo dei civili. La guerra è un ronzio in lontananza che si avvicina sempre di più, e l’unica possibile realtà per una donna a cui è stata strappata ogni speranza. [Carlotta Centonze]