“Bisogna farsi viaggiatori per decifrare i motivi che hanno spinto tanti a partire e tanti altri ad andare incontro alla morte. Sedersi per terra intorno a un fuoco e ascoltare le storie di chi ha voglia di raccontarle, come hanno fatto altri viaggiatori fin dalla notte dei tempi”, scriveva Alessandro Leogrande nel suo romanzo La frontiera, un libro in cui l’autore si faceva traghettatore di storie, dal racconto orale alla lingua scritta, di uomini e donne che avevano intrapreso il viaggio verso l’Europa. Nel libro la testimonianza era il centro di una narrazione ancora da inventare, che lasciava libertà alle vite dei singoli e ai rimossi a cui si sceglieva (o meno) di dare voce. Insomma una narrazione dal basso, circolare, di chi ha speso tanti anni nel sociale e ha imparato a farsi mediatore. Sembra prendere le mosse da qui, da queste raccolte di racconti, Io Capitano, il nuovo ambizioso film di Matteo Garrone – lo premetto, per chi scrive l’unico autore della sua generazione il cui corpus operis delinei i luoghi oscuri del nostro presente trasformandoli in materia cinematografica, spaziando dal personale al politico in un percorso che si spinge dall’attualità fino alle sue radici nelle narrazioni popolari del passato: farsi orecchio di un viaggio non nostro per guardarlo con gli occhi di chi si trova comunque in un ruolo di superiorità, nella sfera protetta di una parte di mondo la cui libertà di movimento e di scambio è data per scontata. Dunque a distanza, dall’alto, traducendo l’epica attraverso immagini che in parte appartengono alla nostra cultura, al nostro modo di elaborarle.

Senza fingersi “compagno di viaggio”, prendendo i mezzi del “grande cinema” e padroneggiandoli in maniera impeccabile, Garrone fa evolvere le testimonianze in un percorso a tappe che ha ricordato a molti il suo Pinocchio, ma ad interessarlo sono ancora di più dei quadri (il villaggio incantato protetto dall’amore materno e degli avi, il deserto come cesura e smarrimento, la prigione degli orrori in cui trovare il suo Geppetto, la metropoli di cui dovrà imparare la mappa per ritrovare l’altra parte di sé e infine il viaggio in mare) dentro ai quali il protagonista, il sedicenne Seydou, acquista una consapevolezza, che è l’unica forza su cui si poggerà la vita che verrà. Al contrario di un eroe da racconto americano, Seydou comprenderà che la sua salvezza – non solo fisica, ma anche mentale e affettiva – dipenderà da essere un solo corpo con chi condivide il viaggio con lui. La sua predisposizione a salvare l’altro non è da leggersi in maniera affettatamente altruistica, ma nella certezza che in ognuno dei suoi compagni ci sia un pezzo di sé, come quelle anime degli antenati che si alzano in volo sotto forma d’uccelli nel cimitero del suo villaggio indicandogli un’altra forma dell’esistenza, da cui apprendere.

Un corpo solo sono i senegalesi a Tripoli, uno dei più bei momenti del film, in cui si scopre una città fatta di enclavi, di gente di passaggio che ha fatto di quella metropoli in movimento la sua casa, e ancora di più lo devono diventare su una nave in cui sono indistinguibili gli arti di uno e dell’altro in un intreccio incontrollato di abbracci e di pugni. Sempre più serrati, più vicini, per raggiungere quella vita migliore, quel pane da offrire ai figli, quella libertà di guardare con occhi nuovi al proprio futuro. Dall’altra parte il volo torna, come liberazione per chi non ce la fa, con un uso degli effetti speciali e visivi che ricorda il Vangelo pasoliniano, facendo emergere l’elemento magico e sacrale nella sua cruda semplicità. Queste sequenze sono la prova di un Garrone che non è appesantito dall’alto budget e dalle sue ambientazioni (come forse è successo su un film come Pinocchio), ma ritrova la precisione efferata della sua regia, che lascia emergere il lato oscuro in maniera inaspettata grazie all’angolazione della camera che diventa immediatamente scelta di campo.

Seydou è un bambino di legno, trasfigurato nella propria bellezza dalle cicatrici di un viaggio che lo hanno reso duro, incapace di concepire alternative, spinto dalla sola forza di una crescita ormai inarrestabile: il suo grido di liberazione del finale (intrappolato in un primo piano dall’alto verso il basso che è difficile da dimenticare) è gettato in faccia a noi, controcampo di giudici, attoniti di fronte a un fenomeno da cui ci sentiamo altro, estranei non solo alle sofferenze del viaggio ma anche a quella forza maturata dentro Seydou. Una forza che trascende il singolo, che è pronta a mettere un’Europa sempre più parcellizzata di fronte all’irriducibilità di un popolo in cammino, le cui storie – se sapremo accoglierle – faranno germogliare una nuova società.