Il cielo sopra Santiago del Cile non è sorvolato da un angelo, ma dal diavolo. Nessuno lo nota, tutti credono sia morto da tempo, ma la sua sete di sangue è ancora viva. Lo danno per morto solo per lavarsi la coscienza: i suoi eredi lo mantengono in vita, così da non dover affrontare il lutto della sua scomparsa. A 50 anni dal golpe che portò all’omicidio di Allende e alla restaurazione della dittatura, la presenza di Pinochet si fa ancora sentire, nonostante si faccia come se nulla fosse davvero successo. Pablo Larraín aveva già provato più volte a riaprire la questione Pinochet: prima in versione gotica nell’autopsia del corpo democratico di Post Mortem, poi ribaltando la prospettiva nel vitalistico No. Alla ricerca di una forma che possa indurre al dibattito, se non a una vera e propria elaborazione, Larraín stavolta reinventa la storia biografica di Pinochet per produrre un esorcismo alla nazione.

Un corpo mantenuto in vita lontano dal mondo, chiuso nella sua Xanadu, che gode solo del proprio passato. Una voice-over ce ne racconta le gloriose gesta contro-rivoluzionarie dalla Rivoluzione francese fino a oggi. È l’ennesima trasfigurazione della biografia regale di Larraín, ma stavolta non c’è un soggetto che melanconicamente deve arrivare a patti con l’oggetto perduto, come in Jackie o Spencer. Anzi, non c’è nulla da elaborare, solo da perseverare. La questione centrale è la successione, la possibilità dei familiari di Pinochet di sfruttare il suo potere per diventare ancora più ricchi e privilegiati: una metafora dell’eredità politica ed economica cilena messa in scena nel set di un pranzo familiare in stile Buñuel.

Le metafore e le citazioni cinefile si accumulano come mai prima nel cinema dell’autore cileno. Tutto si deforma, si veste di farsa. Entra in scena una giovane devota la cui purezza di principi asseta il vampirismo del Conte Pinochet. L’assurda love story si fa simbolo della connivenza della Chiesa al potere dittatoriale. Ma il gioco di El Conde si estende anche oltre i confini nazionali quando un inaspettato twist rivela anche una nuova rete di relazioni parentali, un nuovo mito da riscrivere, un nuovo trauma da elaborare. Il gioco cinefilo di Larraín è anche sul proprio cinema: così Alfredo Castro riappare come il servo più fedele del dittatore, una vuota maschera dedita solo al mimetismo compulsivo di Pinochet sotto cui si cela un vero volto di pura invidia e rancore, esattamente come il suo Tony Manero.

Il vampirismo pinochetiano si estende ben al di là del semplice corpo del conte, diventa un’infezione virale che contagia con la sua brama di potere chiunque gli stia intorno, si espande per tutto il globo. Non semplicemente un’operazione commerciale per un titolo internazionale prestige di Netflix, bensì il dovere di immaginare la rete di responsabili che hanno permesso l’instaurazione e il mantenimento di un sistema oppressivo, di pensare storicamente anche andando contro la Storia. Come la giovane devota appena trasformata in vampira, la mitopoiesi larraíniana si libra in volo libero tra le aride terre in bianco e nero della Storia, la vampirizza per reinventarla.