Quand on n’a que l’amour
Pour parler aux canons
Et rien qu’une chanson
Pour convaincre un tambour.
Alors sans avoir rien
Que la force d’aimer,
Nous aurons dans nos mains,
Amis, le monde entier
Jacques Brel

Un lento movimento attraversa quella che a colpo d’occhio appare l’illustrazione di una fiaba: tra l’azzurro del cielo e il verde acceso di un prato, si staglia un’abitazione che somiglia a un castello. Dopo aver attraversato l’immagine, il movimento prosegue all’indietro, uscendo da una cornice e rivelando quanto appena visto come il contenuto di un quadro.

L’homme d’argile, opera prima di Anaïs Tellenne presentata a Venezia in Orizzonti Extra, si apre dichiarando la matrice fiabesca e l’interrogazione primaria del film, ossia ciò che, in un’opera d’arte, rimane al soggetto dello sguardo dell’artista che l’ha creata. Il movimento di apertura richiama questo percorso a ritroso in quanto lo sguardo non si avvicina al quadro per penetrarlo, ma ne scaturisce, per approdare nell’inquadratura successiva all’immagine del suo soggetto, ossia la villa.

Si tratta di una grande casa abbandonata, custodita dal solitario guardiano Raphael che abita con la madre, un tempo dipendente della famiglia dei proprietari, in una piccola dependance nel parco della tenuta. È un uomo grande e grosso, dai lineamenti duri, coperti parzialmente da una benda nera che nasconde la mancanza di un occhio. La sua vita scorre in un placido flusso di lavori di manutenzione, fugaci incontri sessuali con la postina del villaggio e prove con la cornamusa insieme al gruppo di musica folk del quale fa parte. Infantile e taciturno, Raphael sembra riuscire a esprimere la propria interiorità solo quando di notte scende sul fondo della piscina prosciugata della villa per intonare una melodia nostalgica, una lamentazione solitaria alla luna, che riverbera nelle note strazianti della sua cornamusa. A cambiare il corso degli eventi è l’arrivo di Garance Chaptel, unica erede della ricca famiglia che giunge inattesa alla magione in una notte di tempesta. Tormentata dal passato, la donna tenta il suicidio e Raphael, in un’intuizione che anticipa il sodalizio spirituale che nascerà tra i due, accorre giusto in tempo per salvarla. Attratto da lei, scopre che è un’artista di fama internazionale. Emerge già a questo punto la forza di scrittura di Tellenne nell’architettare personaggi dotati di una brillante e semplice sagacia, ma soprattutto di una sotterranea complessità. La madre burbera e apprensiva sogna l’amore senza saperlo, proprio come Raphael, rifugiandosi nella confortante telenovela la cui sigla nel film si sposta ironicamente fuori e dentro lo spazio diegetico. Nel caso del personaggio di Garance è invece interessante come la validità artistica della sua ricerca non assolva unicamente alla funzione narrativa, che è quella di ribadire la rotazione del film attorno al gesto dello sguardo, ma la espanda in un’indagine creativa a sé stante. L’artista protesta contro l’oggettificazione del corpo femminile sezionando il suo con tatuaggi corrispondenti ai vari tagli del manzo, si astrae dal dolore collezionando e catalogando in fialette tutte le lacrime versate durante la sua vita e si protegge dagli sguardi grotteschi degli antenati sbarazzandosi dell’intera galleria di ritratti famigliari della villa.

Sebbene sia l’arrivo della donna a scompaginare l’esistenza di Raphael, qualcosa accade già all’inizio del film, quando l’amica postina gli regala una piccola statuetta ritraente un golem, il gigante di argilla a cui ancora non è stata infusa un’anima, dotato di una forza sovrumana ma privo di facoltà intellettive e per questo impiegato come servitore. Ed è proprio questa la figura che Raphael evoca agli occhi dell’artista, ispirandola alla creazione di una scultura d’argilla che lo ritrae. Man mano che la statua prende forma, Raphael si risveglia dal torpore che per sessant’anni l’ha avviluppato, quasi riuscisse a sentire su di sé la pressione delle mani di Garance mentre plasmano la materia. La presa di coscienza si concretizza nel coraggioso gesto di dirottare l’esibizione del proprio gruppo musicale per lanciarsi nel suo tragico assolo sotto ai riflettori di un piccolo teatro. Ed è qui che il film prende una direzione ben precisa, diventando “una canzone triste”, come le canzoni di Jacques Brel, quelle che secondo Garance meglio rispecchiano la condizione umana. E mentre Raphael è sempre più nudo ed esposto al tocco demiurgico dell’artista, la vita inizia a scorrere nel suo corpo, infiammandolo di una passione che lo porta a divenire tutt’uno con l’argilla viva di cui non sapeva d’esser fatto. Dopo aver lasciato la casa della madre decide finalmente di riempire il vuoto della sua cavità oculare con una protesi vitrea, rimediando alla menomazione del suo sguardo.

Tutto è vita, tutto è arte. Questo il titolo della mostra di Garance Chaptel sulla quale si chiude il film. Lo sguardo dell’artista, scaturito dal quadro a inizio film, si congiunge ora a quello dello spettatore: il movimento iniziale ritorna per posarsi sulle opere esposte fino a giungere alla scultura dell’uomo d’argilla. L’esperienza spettatoriale è arricchita dall’inscindibile processo di metamorfosi del soggetto. Sull’argilla i tocchi di Garance scolpiscono amorevolmente il “paesaggio accidentato” che è il corpo di Raphael mentre siede con gli occhi chiusi in una posa che ricorda quella del pensatore di Rodin. Ma Raphael non è un pensatore, è un sognatore e il suo sogno, impresso nell’argilla, durerà per sempre.