William Friedkin è – ribadiamo, ‘è’, non ‘è stato’ – probabilmente il regista capace di girare i finali più spiazzanti nella storia del cinema americano. Tra i tanti: la caccia fantasmatica all’uomo in The French Connection durante la quale i protagonisti finiscono per inseguire se stessi, in Cruising lo sguardo in macchina di Al Pacino a suggerire una mutazione identitaria che annulla la differenza tra detective e serial killer, il sorriso stupefatto di gioia di Killer Joe di fronte a una pistola puntata e un dito pronto a piegarsi sul grilletto. Quello di Friedkin è a tutti gli effetti un cinema profondamente destabilizzante, fatto di identità precarie, corpi dominati e menti plagiate, tutto giocato, anche formalmente (l’alternanza tra movimenti frenetici e camera fissa), sulla labilità dei confini di demarcazione tra gli individui prima ancora che sull’ambiguità dei valori – cioè sull’illusorietà del soggetto – proprio come nell’opera del suo analogo europeo, Verhoeven. Nel mondo di Friedkin – ma sospettiamo che valga anche per il nostro – dire io, anzi, credersi un io, e di conseguenza credere di poter distinguere il bene dal male, l’attrazione dalla paura, significa esporsi al pericolo primario della corrosione della personalità (la possessione di The Exorcist, il corpo carbonizzato di To Live and Die in L.A.) e riconoscere il rischio mortale di stare in bilico su una linea talmente sottile da sembrare a volte inesistente (Sorcerer, il remake di Le salaire de la peur di Clouzot, è in fondo un film concentrato sullo sforzo di mantenere in equilibrio un carico esplosivo). Cinema del limite dunque, sia perché estremo, deflagrante, senza compromessi, sia perché pensato ai bordi dell’esistente, e di conseguenza ambientato spesso ai margini notturni della società o nelle periferie statunitensi.

L’ultima (ahinoi) fatica di Friedkin, presentata Fuori Concorso a Venezia, è fondata su un limite molto preciso, e su una visione altrettanto sfuggente. Praticamente tutto il film, tolto l’epilogo, è girato nel perimetro dell’aula di un tribunale militare, dove si svolge il processo a Stephen Maryk, tenente della marina accusato di ammutinamento. Durante una violenta tempesta nel Golfo Persico Maryk ha sollevato dal comando del cacciamine Caine il capitano Queeg per guidare di persona le manovre di salvataggio della nave, dopo che quest’ultimo avrebbe dimostrato segni di squilibrio mentale mettendo in pericolo l’equipaggio. La corte marziale deve stabilire se si è trattato di un arbitrario atto di insubordinazione o di un intervento eroico. Come nella pièce teatrale omonima di Herman Wouk (portata al cinema da Dmytryk nel ’54 e in televisione da Altman nell’88), di cui è un adattamento in contesto contemporaneo, e apparentemente nello spirito del più puro courtroom drama (genere già frequentato dal regista sul piccolo schermo con 12 Angry Men nel 1997), agli interrogatori dell’accusa segue il controesame della difesa in un ritmo dialogico serratissimo tramite il quale ogni certezza, non appena stabilita, viene rovesciata nel suo contrario per intrusioni retoriche e ritrattazioni. Per altro, che Friedkin sia un esperto di interrogazioni lo sa bene chi ha visto il suo ipnotico documentario-intervista con Fritz Lang.

Man mano che la strategia difensiva del riluttante avvocato d’ufficio, il tenente Greenwald, smonta la reputazione inappuntabile del capitano, dimostrando la legittimità del comportamento di Maryk e dei suoi secondi, il dibattimento si trasforma in un processo sulle nevrosi di Queeg. Infatti nella seconda parte, complice un monologo scalpitante di Kiefer Sutherland, emerge la coerenza di un film tanto squadrato e nitido – almeno dal punto di vista della costruzione dell’immagine – rispetto alla filmografia solitamente ben più agitata e umbratile di Friedkin. Anzitutto perché al centro dell’attenzione maniacale di giudici e avvocati, stretta tra piani medi e primi piani, finisce l’ennesima figura di homo friedkinianus, la cui identità instabile viene gradualmente scomposta per via inquisitoria fino al collasso terminale. In questo caso, in un’aula di tribunale che, essendo fatta completamente di legno, somiglia tremendamente a un teatro anatomico, con la sedia per il testimone al posto del tavolo di marmo. E ancora perché The Caine Mutiny Court-Martial vuole dimostrare che, se esiste oggi una gnoseologia made in USA, la sua forma conoscitiva privilegiata non è più quella procedurale cui corrisponde per convenzione il legal thriller (i cui capolavori Witness for the Prosecution e Anatomy of a Murder appartengono a un tempo ormai lontano), ma piuttosto la persecuzione paranoica in cui l’intero paese è coinvolto da decenni, da ben prima dell’11 settembre, e per la quale ogni cittadino si sente costantemente sotto controllo e in diritto di controllare. Perciò nel corso dell’udienza lo scettico Greenwald capisce che, se anche Queeg è effettivamente un comandante lunatico e inaffidabile, in realtà le dinamiche autoritarie tra lui, Maryk e gli altri ufficiali, a loro volta irretiti da un terzo personaggio, sono ben più traballanti di quanto costoro non vogliano dare a intendere durante le deposizioni. Il presunto tradimento di Maryk, e di riflesso lo stesso processo a suo carico, non derivano da un’iniziativa temeraria. Rispondono invece quasi inconsciamente a una logica generalizzata e perversa di vigilanza dettata dalla fissazione tipicamente americana per il comando.

La firma postuma di Friedkin si riconosce, in tutta la sua inclemente ironia, nella dissolvenza che interviene tra la chiusura del processo e l’epilogo della festa rovinata, e coincide con l’uscita di scena di Queeg, il vero protagonista. Durante la seconda testimonianza, rasentando il delirio d’onnipotenza, il personaggio di Sutherland dimostra di essere davvero l’uomo che i suoi marinai gli imputano di essere: capriccioso, narcisista, pavido, infantile, sadico, altezzoso, forse sull’orlo di una crisi nevrastenica. Un leader schiumante pieno di complessi d’inferiorità e meccanismi di compensazione megalomani, dalla cui ipotetica follia dipendono però gli stessi che lo hanno destituito, in primis Maryk per l’assoluzione, così come i legali e il presidente della corte marziale che lo esaminano. La somiglianza o, piuttosto, la sovrapponibilità è lampante: Queeg è Trump. Ma non perché siamo di fronte a un edificante atto d’incriminazione verso l’arroganza del potere capitalista – l’ultima cosa che possa interessare a un regista come Friedkin, artista della demolizione morale. L’equivalenza potrebbe continuare a catena, con nomi di presidenti, banchieri, amministratori delegati della Silicon Valley. Queeg è solo un volto in prestito all’imperium americano, che ha avuto e ha perennemente bisogno di una faccia intorno a cui imbastire un culto che finiscono per praticare anche i suoi nemici. In articulo mortis Friedkin ha reso visibile l’ossessione originaria su cui è fondata l’autocoscienza degli Stati Uniti: quella per l’uomo solo al comando, venerato, aborrito, abbandonato, pazzo.