Da dove nasce una rivoluzione? Nessuno lo sa con esattezza. Dall’avvicinamento, forse? Può darsi.

Comunque sia, nell’ultimo film di Sylvain George l’avvicinamento ai ragazzi che a Melilla, enclave spagnola in Marocco, tentano la fuga disperata verso l’Europa, fuggiti dall’indicibile, si compie fino al punto in cui la camera scompare, mostrandoci così la più radicale militanza di un cinema inteso come sguardo di un Occidente che prova a diventare veramente consapevole delle proprie colpe e del proprio dominio. Non so se è una rivoluzione, ma quanto meno è un inizio.

Au revoir ici…

Non è un caso che proprio a Melilla abbia “resistito” per anni l’ultima statua di Francisco Franco, rimossa solo due anni fa, nel tentativo di prendere le distanze da un passato che ha celebrato e ha compiuto per decenni un numero infinito di scempi e violenze, e non è un caso che, tornando ancora più indietro, le strade di questo non-luogo siano ricoperte di targhe e vie che ricordano i conquistadores, ambasciatori osceni del feroce colonialismo spagnolo. Mischiata a questi scenari suggeriti, l’immagine cinematografica in Nuit obscure – Au revoir ici, n’importe où cammina fianco a fianco agli oppressi di oggi, a queste vite precarie che a loro volta si spostano su un suolo erede della vasta eco di delitti trascorsi. La storia dell’Europa del resto, lo sappiamo, è principalmente composta di imperialismo, autoritarismo e discriminazione, e Sylvain George indagando i volti di questa gioventù africana – maschere viventi e palpitanti di un assoluto futuro – sembra quasi riuscire ad annullare ogni anelito di chi ancora oggi osa pronunciare espressioni come “la tradizione democratica dell’Occidente” o “la terra dei lumi”. Proprio la luce abbagliante dei fari del porto infatti, viene spenta simbolicamente (e quindi cinematograficamente) da un bianco e nero contrastatissimo, che vira verso un’estetica quasi da cinema delle origini, soprattutto durante le sequenze girate con teleobiettivo, dove esili figure tentano l’impossibile arrembaggio, minuscole di fronte a enormi vascelli pronti a salpare verso la finta promessa di un benessere carnefice, causa di ogni ingiustizia che ha portato questi viaggiatori insonni a vedere la propria aspettativa di vita assottigliarsi davanti ai propri occhi, giorno dopo giorno. Un cinema delle origini che ci richiama a ragionare sulla dimensione senza tempo dell’imposizione del più forte sul più debole, come testimoniano i cannoni a difesa della cittadella spagnolo-marocchina, Colonne d’Ercole di un mondo che non vuole permettere agli sfruttati che lui stesso ha creato, di riparare dalle proprie disperate condizioni di schiavi della gerarchia del capitale.

Insomma, Sylvain George prosegue la sua lotta, dopo il primo capitolo, girato sempre a Melilla, ma anche dopo Qu’ils reposent en révolte (Des figures de guerre), in cui però i migranti fermi a Calais portano con loro stessi una consapevolezza di classe, un istinto alla rivolta appunto. In questo ultimo film invece, ancor più che nel primo capitolo, i protagonisti sono totalmente persi nelle loro utopie, e navigano a vista in mezzo a una disumanizzazione inevitabile per chi è costretto a sopravvivere in certe condizioni (fino ad arrivare a bruciarsi di proposito il tratto fisico forse più distintivo dell’essere umano, la pelle), raffigurati in primi piani proiettati quasi verso un’altra concezione dell’umanità. Sì perché se, come scriveva qualcuno, “Bergman ha spinto il più lontano possibile il nichilismo del volto, cioè il suo rapporto nella paura con il vuoto o l’assenza, la paura del volto di fronte al proprio nulla”, in George gli occhi dei migranti diventano essi stessi il nulla, un nulla non portato alla luce dal subconscio mostruoso covato dalla società borghese, ma il nulla di una miseria che precorre (o addirittura preconizza) i tempi. Un nulla coatto creato dalla fame e che, marxisticamente, questo tipo di cinema non rifiuta, ma anzi sottolinea. Ecco che allora le cicatrici sulle guance o sulla fronte vengono accostate in montaggio (che è qui scrittura più che mai, compiendo come forse mai prima d’ora la natura stessa del cinema documentario) alle forme di rami o tronchi sparsi sulla spiaggia, per dimostrare quasi lapalissianamente come una precarizzazione di queste vite sia in atto attraverso il piano brutale di un potere che volutamente getta nel proprio rimosso centinaia di persone, vittime di un’iniquità di cui tutti, qui in Occidente, siamo figli e figlie. Nessuno escluso.

N’importe où

È un cinema importantissimo quello di Sylvain George – lontano dalle estetizzazioni qualunquiste di un altro tipo di cinema che racconta i moti migratori, sicuramente più laccato, ma molto, molto meno pregnante – che da più di quindici anni cerca di riunire un tipo di ragione oggettiva, portatrice dell’assunto di un’umanità solidale sempre e comunque, con una ragione soggettiva, più fragile perché incline a piegarsi a un relativismo che può usare l’arte come più gli aggrada. Sin dai riot degli studenti in L’Impossible – Pages arrachées, passando per le proteste dei migranti di Calais in Qu’ils reposent en révolte (Des figures de guerre) e degli scontri con la polizia in Paris est une fête – Un film en 18 vagues, fino ad arrivare a questo dittico delle Nuit obscure, la camera a spalla di Sylvain, nella sua disarmante semplicità e radicalità, cerca di dirci che solo se quella ragione riuscirà a concepire se stessa e ogni suo passo come momenti del confronto storico fra gli individui, le classi sociali, i popoli e i continenti, potrà entrare in rapporto con quella totalità che le si contrappone e insieme la comprende; e dove le sue conclusioni possono anche rivelarsi irrazionali, ma proprio per questo bellissime e, soprattutto, giuste.

Ah, da qui, forse, può nascere una rivoluzione.