Prima di andare in esilio, il poeta brasiliano e cantore della foresta amazzonica Thiago de Mello – nato nel 1926 a Barreirinha, nello stato di Amazonas – fu imprigionato per un periodo dal governo militare che controllò il paese dal 1964 al 1985. Sul muro della sua cella trovò le parole incise da un detenuto vissuto lì prima di lui: “È buio, ma canto perché l’alba arriverà”. Era un verso di una delle sue poesie.

Pur nell’oscurità, in preda alla più opprimente sopraffazione, esiste una possibilità di speranza che si chiama resistenza. Una resistenza che si mette in atto accogliendo e ribadendo la propria identità, mettendo in scena e vivendo tradizioni e atti che rischierebbero altrimenti di scomparire. Proprio come stanno tentando di fare i membri del popolo del territorio Krahô, nel Brasile centrale, protagonisti del film The Buriti Flower, girato nell’arco di quindici mesi da João Salaviza e Renée Nader Messora e da poco premiato come miglior lungometraggio alla 64 ͣ edizione del Festival dei Popoli.

Alla loro seconda collaborazione, i due autori creano un’opera che è arduo poter definire semplicemente documentaria: favola, realismo magico e cinema del reale si innestano tra loro in una narrazione circolare che richiama la vita stessa e i suoi cicli naturali. Partendo da un presente che sembra sospeso in una dimensione al di fuori dello spazio e del tempo, in mezzo a una foresta intrisa di fantasmi, tremori e afflati di vita nuova, la comunità attende la nascita del suo ultimo membro, evento che si carica di un significato ancora più sacrale dal momento che la sua stessa esistenza è costantemente minacciata fin dai tempi della colonizzazione portoghese del Brasile.

La ciclicità della lotta che ha permesso ai Krahô di sopravvivere fino ad oggi è incarnata soprattutto dalle donne, a partire da Patpro impegnata con il suo parto, fino a Luzia che fa di tutto per partecipare alla grande manifestazione di Brasilia dove si riuniscono le popolazioni indigene del paese per rivendicare e ribadire il loro diritto ad esistere. Il ruolo femminile, non solo concreto ma anche fortemente simbolico, appare fondamentale senza tuttavia risultare stereotipato. La donna infatti mantiene sì un rapporto privilegiato con la natura e la sua capacità generatrice, ma in una funzione tutt’altro che passiva. E questo è molto evidente nella seconda parte del film, dove viene inscenato l’assalto al villaggio avvenuto nel 1940 e il conseguente massacro della popolazione da parte dei colonizzatori, i cupé. Ad accorgersi dell’inizio dell’invasione e a dare l’allarme è infatti una donna. Ciò non impedisce barbare uccisioni e l’occupazione di una porzione di territorio, ma permette la salvezza di una parte della comunità che continuerà a resistere.

The Buriti Flower è un’esperienza immersiva in una dimensione altra, lontanissima, ma che in realtà possiede un respiro universale – e quanto mai attuale – che accomuna tutti gli esseri umani e le popolazioni che subiscono violenza e sopraffazione da parte di un invasore esterno ed estraneo che deturpa, distrugge e uccide tutto ciò e chi incontra sul suo cammino. La risposta a questa oppressione è una resistenza pacifica in armonia con l’ambiente, attraverso la volontà di perpetuare il proprio diritto ad esistere.

Nascita e morte, dunque, si rincorrono come parte integrante di un unico enorme sistema, dove il rapporto di interdipendenza tra genitori e figli (soprattutto tra madri e figli) ricalca quello tra la terra e l’essere umano, in una non separazione degli individui e dell’ambiente, in un’armonia cosmica e spirituale che la società attuale ha quasi totalmente perduto. La venuta di un nuovo membro si trasforma così da un “semplice” simbolo di speranza a un vero e proprio atto di resistenza attiva con cui il popolo Krahô, in nome di tutti gli altri oppressi del mondo, rifiuta la violenza esterna che lo vorrebbe far scomparire. E alla fine l’esistenza stessa diventa azione politica.