Durante la consegna del premio alla carriera conferito ad Andrea Arnold in occasione della Quinzaine des Cinéastes della 77esima edizione del Festival di Cannes, viene proiettato un montage di frammenti che cerca in pochi minuti di cogliere la sintesi più profonda del suo cinema. Sullo schermo giovani donne vagano in territori liminali di periferie abbandonate a se stesse, tra natura e insediamento umano. Una camera a mano le accompagna imitando il movimento docile di un animale fedele mentre, quasi emanata dalle stesse immagini, una colonna sonora più che sovrapporsi emerge, rivelando ciò che la cinepresa da sola non riesce a dire.

Bird, presentato nel Concorso Ufficiale, si inserisce perfettamente nell’universo filmico costruito dall’autrice in quasi trent’anni di carriera. Il film racconta del passaggio d’età di Bailey, dodici anni, cresciuta in un’Inghilterra meridionale priva di speranze, nel solco di quella società marginale che è il cuore pulsante del cinema di Andrea Arnold. Figlia di genitori a malapena adulti, con un padre che ancora non ha avuto il tempo di esaudire i propri desideri post-adolescenziali, è circondata da un mare di fratellastri e coetanei allo sbando, come lei senza prospettive, la cui unica via per la sopravvivenza sembra essere quella della criminalità. La famiglia di Bailey è espansa, disastrata ma pronta a sostenersi, problematica ma forse più felice di una middle class disgregata e lontana da quel senso di comunità che unisce i personaggi di Arnold, all’insegna di quello che lei stessa definisce un cheery surviving. Introversa e solitaria, Bailey ama riprendere col cellulare ciò che la colpisce per poi proiettarlo sul muro della sua camera, aprendo un varco nel quale i suoi occhi riescono a scorgere spiragli di bellezza tra le rovine. Ad attrarla è soprattutto il cielo, attraversato dal volo libero degli uccelli, aperto su di lei come un contrappunto sconfinato alle disperate che abita. Sono zone di confine tra città e campagna, dove l’insediamento umano si fonde con la natura e dà vita a un panorama sempre presente nei film della regista, quello delle edgelands. Un giorno, vagabondando in questi luoghi dimenticati, Bailey si imbatte in Bird, un giovane uomo fragile e bizzarro giunto in Inghilterra alla ricerca dei propri genitori. I due si riconoscono immediatamente, accomunati da un’impossibilità di aderire pacificamente al mondo che abitano e al contempo dotati di una sensibilità che permette loro di penetrarne le profondità più recondite.

In Bird emerge sin dalle prime inquadrature tutto il cinema di Arnold: un’ibridazione tra elementi del realismo sociale inglese e del cinema della trascendenza, nel racconto di un coming of age femminile che incorpora il sublime incanto dell’adolescenza al degrado di una realtà profanata. Anche le modalità linguistiche sono ormai consolidate: l’uso indefesso della camera a mano e una colonna sonora pervasiva e potente, che espande i confini della narrazione visiva liberando l’universo interiore dei personaggi. Quest’ultimo film compie però un passo decisivo nel consolidamento di ciò che è stato accuratamente definito come stray visuality, un’estetica dell’erranza. L’espressione è coniata a partire dalla riflessione di Barbara Creed sul significato del termine stray, inteso come modalità esistenziale a cui è destinata la maggior parte degli esistenti nell’Antropocene. La perdita dell’habitat implica una separazione crescente tra i viventi e il proprio nucleo di appartenenza, portando a un progressivo indebolimento dell’ordine sociale con conseguente disgregazione della gerarchia antropocentrica, e una visione del mondo multispecie come realtà sempre più interconnessa. Il termine stray indica il randagio, il vagabondo, colui che ha deviato dal percorso ordinario, separandosi da un mondo al quale non può più appartenere. Misterioso, liminale e senza confini, lo stray è strettamente correlato all’animalità: i conduttori di questa estetica randagia sono gli animali e, in seconda istanza, le donne, in quanto per Creed il vagabondaggio unisce la donna e l’animale come figure collocate parimenti ai margini di una società governata da un maschile soverchiante.

Nel cinema di Arnold, a prima vista antropocentricamente focalizzato sui desideri di emancipazione delle sue protagoniste, tutti i regni dell’esistenza vengono posti sullo stesso piano. Il cane in Dog, le vespe in Wasp, il cavallo in Fish Tank, il rospo in Bird, ma anche più piccoli elementi narrativi come le numerose inquadrature di bambine che tengono in braccio cuccioli, suggeriscono un’interconnessione che trascende la mera esistenza metaforica o simbolica del non-umano. Tramite movimenti di macchina e cambi di fuoco, Arnold mette spesso in relazione i personaggi femminili con l’ambiente che li circonda, quasi fossero una reciproca emanazione gli uni degli altri, operando una rottura dell’opposizione binaria tra umano e non umano, sovrapponendo le due istanze in maniera complessa, creando narrazioni dove femminile, animale e naturale si compenetrano a vicenda per raggiungere un’armonia esistenziale che porta quasi sempre alla risoluzione del conflitto. Tutto questo si incarna e sintetizza perfettamente nel personaggio di Bird, un essere androgino con movenze istintive e animalesche che rompe i confini di specie e di genere. Indossa la gonna e si arrampica su tetti, recinti, muri, per salire in alto, come gli uccelli, e riuscire a orientarsi in un territorio nel quale ha perso ogni riferimento. La sua trasformazione finale, passaggio essenziale nel film che certifica la natura del personaggio, non è altro che l’approdo necessario di un processo sincretico. Bird è una figura reale e mitologica al tempo stesso, è lo stray giunto nel momento in cui Bailey si accinge a oltrepassare la soglia dell’infanzia. La sequenza finale del film è in questo senso rivelatoria: Bailey, abbracciando Bird e nascondendo la testa tra le sue piume, stringe a sé l’universo che la circonda e di cui ora è finalmente parte, accogliendo le componenti che non era sinora riuscita ad incorporare. Si riappropria di un tempo, quello dell’adolescenza, che nel cinema di Arnold è sempre troppo breve, e di un femminile che precedentemente non aveva potuto che reprimere (non a caso per tutto il film Bailey si veste da maschio, tagliandosi anche i capelli, mentre sul finale indossa un abito succinto e ha il volto truccato). Abbracciando Bird, Bailey accetta la sua natura di stray e il suo sguardo, umano e animale al tempo stesso, esprime con forza allo spettatore l’urgenza di un ritorno a una dimensione più ecologicamente sintonizzata e consapevole.