In un’epoca in cui la ribellione è diventata una merce come tante altre, Lech Kowalski resta uno dei pochi irriducibile contestatori dell’ordine precostituito. In uno dei suoi film più belli si domandava se filmare il volto di coloro che detengono il potere fosse interessante quanto filmare il volto di coloro che stanno ai margini, e la domanda sottende anche il suo ultimo film, On va tout péter, cronaca appassionata e furibonda dell’occupazione di una fabbrica di componenti per automobili. Degli oltre 270 dipendenti, solo 120 vedono garantito il proprio posto di lavoro quando l’attività viene rilevata da un nuovo acquirente: decisi a fare fronte comune, gli operai ne prendono possesso e minacciano di farla saltare in aria se le loro richieste non verranno accolte. Kowalski si unisce alla loro lotta testimoniando l’evolvere di un conflitto il cui esito è scritto in partenza, ma non per questo merita meno di essere raccontato.

Contrappuntato dall’inconfondibile utilizzo della voce fuori campo del regista – qui un po’ meno incisiva che in passato – il film segue con crescente passione la difesa del posto di lavoro da parte di lavoratori trentennali che, eroi dalle fattezze comuni, si schierano contro una multinazionale senza volto e dagli emissari invisibili. Sono i cordoni polizieschi di una Francia sempre più militarizzata il confine contro il quale va a infrangersi la rabbia dei lavoratori e il film mostra con chiarezza lo stato di disgregazione sociale nel quale fa breccia un capitalismo in grado di mettere tutti contro tutti, parcellizzando le comunità fino a isolare il singolo, come dimostra la scena in cui gli operai, ormai alla disperazione, bloccano la circolazione stradale suscitando le ire degli automobilisti; o quella con il litigio tra gli scioperanti e il giovane lavoratore che li vede come un ostacolo allo svolgersi quotidiano del proprio impiego.

La regia di Kowalski è nervosa, elettrica, la macchina da presa segue lo scontro con empatia fisica prima ancora che ideale e politica, corpo combattente tra gli altri; e il montaggio serrato contribuisce a rendere palpabile la tensione di un malessere crescente e destinato a infrangersi contro il muro del sistema. Il regista stesso viene trascinato via a forza dai rappresentanti della legge nella scena finale del film, epilogo speculare dell’altro grande film antagonista di questa stagione, Che fare quando il mondo è in fiamme? di Roberto Minervini. Come si filma la rivolta? E, soprattutto, quale tipo di rivolta è ancora possibile e contro quale nemico? Sono le domande che da sempre contraddistinguono il lavoro di un regista che fin dagli inizi ha saputo filmare i nervi scoperti della società contemporanea e le sue pulsioni distruttrici, con la capacità di restituire dignità all’essere umano oltre ogni miseria e fallimento. La sequenza più toccante del film è, allora, quella in cui uno dei protagonisti scopre di condividere la medesima passione per la pesca con il poliziotto che lo fronteggia. E per un istante si rivela un mondo diverso, in cui i detentori del potere hanno lo stesso volto di coloro che lo subiscono, e si intravede una solidarietà umana ancora possibile, non annichilita. [Alessandro Stellino]


LE BRIGATE DELLA MORTE

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Dopo le inquietudini palpabili di O som ao redor (Neighbouring Sounds) e la guerra fredda di Aquarius, ma soprattutto dopo l’elezione di Jair Bolsonaro a Presidente del Brasile, era lecito attendersi una escalation del sottotesto politico dal terzo lungometraggio di Kleber Mendonça Filho (qui in coregia con Juliano Dornelles). Bacurau fa molto più di questo. Lo scontro politico, di classi sociali e di modi di vivere contrapposti diventa una faccenda di carne e sangue, di machete e piombo rovente. Da una parte il mondo secondo Tony Junior: balle elettorali, mercificazione della carne, logica del profitto indiscriminato; dall’altra il mistero inesplicabile della comunità di Bacurau, che mescola una carnalità molto terrena a un misticismo animista, un po’ hippie e un po’ vergine dei sicari.

Una dicotomia forse semplicistica rispetto alle premesse di un incipit cosmico, che parte dalla Terra azzurra, osservata da una prospettiva kubrickiana, per scendere nella terra, nera e con la minuscola, in cui i primi abusano ripetutamente degli ultimi. Nell’utopia di Bacurau nessuno viene giudicato: la solidarietà reciproca è naturale e gratuita come un accordo di chitarra o l’acqua che scorre. Un’insopportabile anomalia del sistema che va rimossa dalle mappe digitali, dalla nuova verità universale di Google Maps, prima ancora di essere rimossa alla vecchia maniera, con la polvere da sparo.

Mendonça Filho prova a far coesistere le bare di Django con i droni, Udo Kier e Sonia Braga, Distretto 13 di Carpenter – per i killer che non si fermano di fronte all’innocenza più che per gli ovvi sintetizzatori della colonna sonora – e Marco Ferreri. Forte l’afflato simbolico, grazie a una messa in scena che passa dallo stralunato realismo della prima parte al gore del gran finale, in un crescendo di tensione che si risolve in un momento d’espiazione, con folgoranti aperture magiche.

Probabilmente, anzi sicuramente, troppa la materia da gestire in maniera coerente. Ma lo squilibrio tra le parti è forse il prezzo da pagare per permettere a un intelletto raffinato come quello del regista brasiliano di potersi esprimere in maniera libera e con estro visionario. [Emanuele Sacchi]


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