Duplice, triplice, stratificato e polimorfo come il suo protagonista, Il traditore di Marco Bellocchio è un film che varca confini, mescola lingue e prossemiche, attraversa retoriche e dispositivi: come per tanti personaggi bellocchiani anche il ritratto di Tommaso Buscetta, esponente di Cosa Nostra e testimone chiave nelle inchieste sulla mafia condotte da Giovanni Falcone, si muove sul filo di un continuo, logorante divenire, quella morte minore che rinnega il proprio mondo o sistema di riferimento, non solo e non tanto per liberarsene o rivendicare se stessi, ma qui letteralmente per sopravvivere. Nascondersi dalla faida tra famiglie nemiche non basta e non serve più, Buscetta diventa un “traditore”, un “infame”, ma rovescia l’accusa: “Sono loro ad aver tradito gli ideali di Cosa Nostra”. Scontro diretto, non frontale, perché a mediare con incertezza e imbarazzo sono lo Stato e la protezione concessa ai collaboratori di giustizia. Un abdicare alla percezione mafiosa del mondo che poco ha a che fare con il pentimento, per assumere nel tempo i connotati di un esilio nostalgico, di una psicosi intermittente, che la forma stessa del film abbraccia attraverso le proiezioni del personaggio, nel tentativo di spostare il congedo dalla vita in un territorio di utopica libertà. Sullo sfondo, la parabola violenta delle stragi e il Maxiprocesso di Palermo.

Nella ricostruzione della vicenda Buscetta – più efficace quando più ellittica, come nella scena dell’irruzione della polizia nella villa in Brasile, dove un movimento di camera a seguire la discesa di una scala unisce due arresti avvenuti in realtà a distanza di anni – Bellocchio lotta con il proprio slancio autoriale per tenere testa a un film che, complici il forte indirizzo di sceneggiatura e il magniloquente disegno produttivo, rischia fin dal prologo di perdersi nelle istanze informative e psicologiche dell’ennesimo romanzo criminale. Questa “oggettività”, molto meno punteggiata del solito dai guizzi immaginifici del cineasta che pure ne costituiscono un motivo stimolante, è segno della distanza personale dalla materia trattata (potremmo dire dalla Sicilia stessa, che però era personaggio a tutto tondo nel surreale Il regista di matrimoni), e al contempo desiderio di ridotare il racconto del carisma di un cinema civile, ma costringe lo spettatore ad attendere almeno mezzora dai titoli di testa, dopo didascalie grafiche francamente sterili, per riconoscere quello sguardo chiaroscurale aperto sulle scissioni sonnamboliche, tra pubblico e privato, che a Bellocchio appartiene prima di qualsiasi altro autore italiano.

In quasi due ore e mezza di durata, Il traditore propone pulsioni, lapsus e afasie attraverso una composizione coppoliana del cast e relativa scansione di ritmi e materiali in sede di montaggio, impegnando la via del flashback impossibile o della pura intuizione – come nella curiosa scena dell’incontro con Andreotti in mutande dentro una sartoria – per seminare di spinte centrifughe e non detti la dimensione cronachistica e chiusa della biografia di Buscetta. Ricorrendo inoltre, cifra ormai canonizzata nel processo creativo di Bellocchio, a titoli di giornale e repertori televisivi dell’epoca, per riflettere, come in Vincere e in Buongiorno, notte, sul potere evocativo delle immagini (contrappasso dei colpevoli?) e sul cortocircuito etico della loro realizzazione e del loro ruolo nell’immaginario collettivo.

Non solo: proprio all’insegna del rovesciamento di ogni tesi, il film si immerge a partire dai lunghi dialoghi tra Buscetta e Falcone in un clima di compulsivo relativismo, dove il profluvio di parole e posizioni morali messe in campo si apre alla teatralità del gioco della parti, senza giudizi sui personaggi ma con pochissime certezze cui potersi appellare. Questo atteggiamento pirandelliano – connaturato al percorso intellettuale di Bellocchio – nutre fino all’espressionismo e alla crudeltà la messinscena dei diversi confronti processuali tra Buscetta e gli imputati mafiosi, regalando un vero e proprio bestiario fuori controllo (controcampo mortifero dei brigatisti in gabbia di Diavolo in corpo) che smaschera l’immagine di uno Stato totalmente inerme di fronte al codice antropologico di una forza da cui a fatica riesce a difendersi. Manca la lingua, manca la traduzione, come quando il personaggio di Luigi Lo Cascio testimonia in siciliano stretto, e nessun dei magistrati capisce. Anche per questo, il punto di vista sulla strage di Capaci collocato all’interno dell’automobile di Falcone, pur nella sciagurata effettistica visiva cui si affida, è coerente alla scossa dialettica che Bellocchio vorrebbe evocare, e opposto al suo omologo plastico ed estetizzante ne Il Divo: là uno sguardo esterno su un significante in caduta, qui lo spettatore che salta nel vuoto insieme alle vittime.

Unico italiano in concorso a Cannes 72, Il traditore potrebbe essere il film più dolente e funereo di Bellocchio, nonostante le cromie sature con cui le immagini di Vladan Radovic raccontano la Sicilia, il Brasile, gli stessi incerti scorci di Stati Uniti: frequenti campi fissi, ora sui singoli ora d’insieme, conducono Buscetta attraverso il tempo e lo vedono trasformarsi, quasi artatamente, anche nel corpo e nel volto. Questo iter esistenziale, radicale e tragico per la solitudine che neppure gli affetti o la paternità possono guarire, solleva un film difficile – una macchina cinema pesantissima – dalle sue non rare cadute di stile. Di guardia sopra un qualsiasi tetto della provincia americana, vecchio e malconcio con il fucile in mano, il Buscetta di Favino ricorda il malinconico e ingrigito Enrico IV di Mastroianni: carnefice e vittima, orfano della propria discendenza, prigioniero di un ruolo. Uno che non ha avuto paura della morte, ma di morire su altrui decisione. Dice Falcone: si muore ogni giorno. Si muore e basta.