A tre anni da Il nido, Klaudia Reynicke torna a Locarno nella sezione Cineasti del presente con Love me Tender, per immergersi nel racconto della vita di una giovane ticinese, filtrato da un angolo di osservazione obliquo e nascosto. La casa di Seconda, sin troppo giovane proprietaria di un appartamento di proprietà familiare, raccoglie a stento la luce proveniente dal mondo esterno, simbolicamente racchiuso in una piazza bianca e squadrata. Seconda di due figlie, la ragazza vive dolorosamente in un luogo che trattiene le tracce di una memoria imprescindibile, i segni di una tragedia che a poco a poco decreta la morte di ogni colore e forma di vita presente.

Ogni stanza, vissuta come nel corso di un’eterna e noiosa estate, è satura di elementi e tinte stantie, oggetti usurati e piccoli cimeli, che sembrano ammiccare alla composizione di una natura morta, nella quale si specchia il corpo potenzialmente energico della protagonista, unico barlume di vitalità, alla ricerca di una liberazione. Vitali e incalzanti risultano anche i ritmi musicali di alcuni degli istanti più catartici della vicenda, insieme a quelle che potrebbero essere identificate come delle sorprendenti e a volte pedanti apparizioni di immagini semi-surreali, chiaramente forgiate sulla simbologia del dolore di Frida Khalo: molto probabilmente un modello di resistenza e anticonformismo scelto da Reynicke per sottolineare la forza sovversiva della protagonista.

Costruendo la storia estrema di Seconda, la regista riesce a ritrarre con un gioco metaforico sottile e narrativamente essenziale non solo la paura dello scontro tra una giovane donna e il mondo esterno (i codici patriarcali che lo nutrono), ma anche, secondo un meccanismo inverso, le reazioni difensive o aggressive di chi crede di possedere una forza maggiore e invece si rivela, immancabilmente, portatore delle stesse debolezze e paure della propria preda. Da agorafobica, Seconda sostituisce gli incontri e i contatti quotidiani attraverso un surrogato: le immagini di lezioni di aerobica assorbite passivamente guardando la tv. Ogni confronto con l’esterno si realizza pertanto nell’aderenza a un modello estetico dominante o all’interno di una “tuta-muta” che racchiude il corpo della protagonista, rendendola particolarmente identificabile, ma, al contempo, opaca e insondabile, proprio come uno schermo spento o mal funzionante.

Il suo personaggio, spesso ripreso in istanti di annoiata o euforica intimità (tanto da far pensare alla giovane Akerman di Saute ma ville), pur volendosi sottrarre alla finzione e alle messe in scena della vita, incappa nell’inevitabile, dichiarando a gran voce la forza schiacciante degli schemi di relazione che abitano il quotidiano, e dando origine a un percorso labirintico che avrebbe come unica via d’uscita la morte, se solo non fosse anch’essa beffata da una reazione provocata da agenti estranei e disturbanti. Un film sorprendente e coraggioso.