Proseguiamo con la rubrica in cui alcuni dei registi più importanti del panorama internazionale indicano dieci film che hanno segnato il loro percorso artistico e professionale.
Abbiamo incontrato il regista tedesco Edgar Reitz, ideatore della saga di Heimat e tra gli autori del Manifesto di Oberhausen del 1962, qui in Italia per presentare la retrospettiva su Heimat 2, portata avanti dal Centro Culturale San Fedele a Milano. Dopo alcune domande che abbiamo ritenuto importante porgli, sulle sue idee di cinema e sullo stato del cinema contemporaneo, lo abbiamo invitato a condividere con noi quei film che lo hanno formato e lo formano tutt’oggi come cineasta.
Uno degli aspetti più affascinanti di Heimat è il suo percorso produttivo. Nel 1984 deve essere stato estremamente faticoso proporre un film profondamente personale che si esplicasse però attraverso la serialità. Come è riuscito a trovare qualcuno che credesse in questo progetto?
In effetti non c’è mai stato qualcuno che ha espresso sin da subito la volontà di produrre Heimat, ma è stato un processo composto sempre da piccoli passi. Ma dopo anni di fatica e incertezza all’uscita di Heimat 1 c’è stato immediatamente un grande successo di pubblico, con trenta milioni di spettatori. Abbiamo avuto subito quello che in Germania chiamiamo uno straßenfeger, cioè qualcosa che ha pulito le strade, che ha raccolto tutti. Ovviamente a questo successo ha contribuito anche la presentazione in tv sul primo canale nazionale, a cui sono seguite le infinite repliche nei cinema di tutta la Nazione. Questo consenso ha fatto poi da apripista per Heimat 2.
Si parla di un’opera radicalmente intima, quando si affronta l’analisi di Heimat, arrivata dopo una crisi personale e artistica con l’insuccesso del Sarto di Ulm. Quanto è importante per lei, da questo punto di vista, il legame tra arte e vita, tra la propria esperienza e ciò che poi è diventato il suo lavoro più importante?
C’è proprio un episodio in Heimat 2 che si intitola L’arte o la vita. Per me è sempre stato fondamentale avere un elemento autobiografico nelle mie opere, perché ciò che si vive è sempre molto più dettagliato e profondo rispetto a quello che si raccoglie attraverso la lettura e le conoscenza. Il segreto è l’atto di trasformazione degli eventi. C’è una frase che disse Goethe che mi ha sempre colpito molto e spiega molto bene questo concetto: “Tutto quello che io ho scritto c’è già stato, ma nessuno l’ha descritto come lo descrivo io.“
Lei è stato uno degli ideatori del Manifesto di Oberhausen, che è stato fondamentale per la storia del cinema contemporaneo, ed era un manifesto di rottura, contro quello che voi definivate “il cinema degli ingredienti”, portando in sua sostituzione quello che è poi diventato “il cinema degli autori”, che porta sullo schermo proprio le esperienze personali, rielaborate dalla creazione cinematografica. Secondo lei non sarebbe il momento, considerando lo stato attuale di molto cinema, di ideare un nuovo manifesto, qualcosa che rompa di nuovo i confini?
È una cosa che dico da anni, ma è molto curioso che sia io a dirlo alla mia età, perché è ovvio che è qualcosa che dovreste fare voi giovani. Però ci sono dei segni che ci fanno ben sperare. Di recente a Francoforte c’è stato un incontro dove è stato realizzato un documento con cinque tesi, che va nella direzione di un secondo Manifesto di Oberhausen. La tesi più importante tratta del ruolo della televisione, che oggi come oggi necessita di un cambiamento, soprattutto in Germania, dove ha un’incidenza molto forte all’interno degli organismi che assegnano finanziamenti per la produzione di opere cinematografiche, senza però impegnarsi per la loro circuitazione, isolando sempre più la sala e limitando la libertà espressiva. Inaccettabile.
I MAGNIFICI 10
1. Il primo film visto
La piccola principessa (Walter Lang, 1939)
2. Il film che le ha fatto venire voglia di fare cinema
Les enfants du Paradis (Marcel Carné, 1945)
3. Il maggior riferimento cinematografico all’interno di Heimat e Heimat 2
Bella di giorno (Luis Buñuel, 1967)
All’interno di Heimat 2 c’è una citazione dal film: una scena che richiama quella del film di Buñuel in cui il personaggio della Deneuve apre uno scrigno misterioso, facendo scappare tutti gli astanti. Conobbi Louis a Venezia, io stavo presentando il mio primo film e lui questo capolavoro assoluto, di cui mi ricordo ancora ogni passaggio.
4. Il film tedesco che ama di più
L’ultimo uomo (Friedrich Wilhelm Murnau, 1924)
5. Il film italiano che ama di più
Rocco e i suoi fratelli (Luchino Visconti, 1960) / L’albero degli zoccoli (Ermanno Olmi, 1978)
6. L’ultimo film che ha visto
System Crasher (Nora Fingscheidt, 2019)
Un film tedesco molto forte e intenso, vale la pena vederlo anche in Italia, a proposito di cinema diverso dal solito.
7. Il film che farebbe vedere in una scuola di cinema
Novecento (Bernardo Bertolucci, 1976)
8. Il miglior film contemporaneo
Corpo e anima (Ildikò Enyedi, 2017)
9. Il miglior film sul cinema
Effetto notte (François Truffaut, 1973)
Si deve riscoprire Truffaut, perché ce lo stiamo dimenticando sempre di più.
10. Il miglior film che riflette maggiormente sul confine tra arte e vita
Fanny e Alexander (Ingmar Bergman, 1982)
Ecco, abbiamo fatto una bella passeggiata nella storia del cinema (sorride n.d.r.).