“Analizzando meglio i dettagli vediamo come l’artista rappresenti non il popolo in subbuglio, bensì appunto una folla, perché il popolo si ribella, non si fa scivolare tutto addosso, non si fa corrompere, non prende per buona qualsiasi cosa gli venga proposta. La folla invece no, non si ribella, è credulona, non si arma di una propria coscienza, è manovrata dal potere, è molle, non si batte per ideali, è per questo che Daumier la rappresenta con una massa di colore quasi informe.”

Giulio Carlo Argan a proposito di “Vogliamo Barabba”, di Honorè Daumier

Avamposto della narrazione contemporanea, ancora una volta il cinema sud coreano spalanca il suo sguardo sulle idiosincrasie del presente. Se in Burning Lee Chang-dong ha mostrato lo svuotamento empatico delle nuove generazioni, in Parasite Bong Joon-ho racconta il livore e la frustrazione repressa del sottoproletariato contemporaneo, ingannato dalla promessa inattendibile di un benessere diffuso.

Partendo da una premessa quasi commediale, il film racconta di una truffa messa in atto dalla famiglia di Ki-taek, afflitta da un periodo di grave precarietà economica. La speranza di un’entrata regolare si accende quando il figlio, Ki-woo, viene raccomandato da un amico per un lavoro ben pagato come insegnante privato, presso la casa del ricco Mr Park, dirigente di una famosa multinazionale. Grazie a una serie di espedienti l’intera famiglia riuscirà a farsi assumere in questa lussuosa villa, insinuandosi sempre di più, fino al tentativo di sostituirsi del tutto ai suoi abitanti.

Nel film l’atto della truffa non è mai vissuto dai suoi fautori né come un gesto di cui vergognarsi, né tanto meno come un potenziale atto sovversivo, ma quasi come un automatismo, portato avanti per poter sopravvivere in una società ancora pesantemente divisa in classi, ma allo stesso tempo schiava di un consumo che genera idoli contro cui nessuna rivoluzione può nulla, perché annullata dall’omologazione reazionaria del sogno borghese, che ha ormai addormentato la coscienza di classe del popolo che abita l’Occidente culturale (di cui la Corea del Sud fa parte a pieno titolo).

Ma la coscienza apolitica in cui sono immersi i personaggi si trasforma in Parasite in un’arma in grado di acuire l’individualismo e l’ambizione, normalizzando l’homo homini lupus, da cui tuttavia non deriva una colpevolizzazione delle classi più agiate, quanto piuttosto la nascita di una guerra intestina tra poveri, che prende vita nel film attraverso lo scontro contro l’ex governante dei Park. È la vittoria incontrastata e inevitabile del potere che il regista vuole mostrarci, un potere che si adatta a ogni cambiamento, e che per perpetuarsi inganna costantemente, facendo credere a tutti di poter usufruire della massima ricchezza, anche se a discapito di un nostro fratello.

Cosa può allora rompere questa sudditanza, dissumulata da una società che si pone come modello di democrazia ma che in realtà perpetua la differenza di classe oggi come in passato? Secondo Bong Joon-ho, che già in Okja aveva scardinato il non detto sul consumo alimentare in Occidente, l’unica possibilità di spezzare questa catena è intervenire proprio su quell’individualismo inteso come avamposto della reazione contemporanea, smascherando la finta inclusione propagandistica del consumo. Quando Ki-taek decide, in un fugace momento, di ribellarsi, non lo fa perché vede i propri figli in pericolo di vita, ma perché recepisce una volta per tutte il disprezzo che Mr Park prova nei suoi confronti, ed è allora, quando il miraggio di una vita da pari si infrange contro un classismo imperituro, che si convince ad attaccare istintivamente l’uomo benestante che gli ha rubato la possibilità di vivere una vita più dignitosa.

Parasite svela con sorprendente lucidità la disfatta post moderna della lotta di classe, il lungo giro che, attraverso il deflagrare definitivo della società liquida, ha portato al coma delle coscienze sociali, trasformando la povertà in una colpa individuale e non nel risultato di un sistema iniquo. Tant’è che nel finale onirico che si sovrappone al reale, la soluzione paventata rimane, nonostante la tragedia, quella di scalare la piramide sociale e tentare di sostituirsi, ancora una volta, ai benestanti, poiché il cambiamento, lo sconquasso dell’attuale status quo, non è più in grado di entrare nell’immaginario di nessuno.

Quel “no alternative” impiantato nelle menti a partire dagli anni 80, in Parasite trova il suo terreno immaginifico ideale, perché l’illusione che il consumo possa rendere felici si accoppia simbionticamente (o parassitariamente) all’idea che non ci sia un futuro oltre l’individualismo turbo-liberista in cui siamo intrappolati.

Se è vero allora che è più facile immaginarsi la fine del mondo, piuttosto che la fine del capitalismo, compito del cinema contemporaneo, se mai ce ne debba essere uno, è quello di filmare l’estensione immaginifica di questo vicolo cieco, per mostrarlo al proprio pubblico in tutta la sua tragicomica desolazione.