Una donna vestita di colori tenui giace supina in mezzo alla campagna, tenendo le mani sul grembo. La stessa donna conduce una mucca tra gli alberi, camminando senza fretta. Quando si volta, la mucca non è più dietro di lei, ma la sua testa mozzata galleggia in un pozza di fango, in un repentino cambio di tono che dal lirismo delicato delle prime immagini sprofonda nell’incubo rovinoso della protagonista. Presentato in anteprima italiana alla 31ª edizione del Trieste Film Festival, l’opera prima della filmmaker kosovara Antoneta Kastrati Zana è il racconto doloroso di una donna spezzata, il cui corpo conserva la memoria negata del conflitto e la devastazione della perdita.

In un villaggio rurale del Kosovo, Lume vive con il marito Ilir e l’invadente suocera Remzije, determinata a risolvere la difficoltà a concepire della coppia. In una società patriarcale e maschilista, sotto pressione per le minacce della suocera di venire sostituita da una moglie più giovane, Lume presto supera i confini della medicina tradizionale per entrare nelle umili abitazioni di santoni e guaritori mistici. Ma il suo corpo, appesantito dai segni invisibili della guerra, sembra non rispondere alle cure, e la ricerca della maternità porterà a galla le ferite del passato.

Interpretata con energia magnetica e viscerale da Adriana Matoshi (che aveva già dato prova del suo talento nell’ottimo esordio di Blerta Zequiri The Marriage), Lume lavora nei campi con una foga instancabile, come a voler mondare il corpo, e quindi la mente, da ciò che rimane innominabile sulle sue labbra. La quotidianità con il marito Ilir e la suocera sembra non interessarla, e l’abbandono passivo alla vita di tutti giorni, che la vede delegare agli altri importanti decisioni come quella di diventare madre, coesiste con la sua estrema forza interiore, fino a che la vita spirituale e onirica inizierà a prendere il sopravvento. Così il ritratto della società rurale kosovara di Antoneta Kastrati porta alla luce una comunità fiaccata, che cerca faticosamente di ricostruire una normalità sulle macerie della recente guerra nei Balcani. La superstizione e la magia sembrano pervadere la vita nel villaggio, che si tratti del colorito racconto di uno zio, convinto di essere stato rapito da bellissime streghe, oppure del santone che attribuisce l’infertilità di Lume al suo essere posseduta da un demone. Nell’atmosfera di misticismo che la circonda, Lume inizia a dare libero sfogo a visioni notturne e incubi ad occhi aperti, in una progressiva confusione tra la realtà e immaginazione. Così, alle giornate di sole leggero passate in campagna a raccogliere uova o a giocare a palla con i bambini si alternano notti scure di litanie, lenzuola insanguinate e corpi senza vita, che la gettano in stati emotivi catatonici e sofferenti.

Antoneta Kastrati porta avanti un’operazione a dir poco delicata, laddove l’elaborazione del trauma della protagonista prende le mosse dalla sua esperienza personale. Teenager durante la guerra del ’98-’99, Kastrati ha perso la madre e la sorella maggiore durante il conflitto. Tormentata dal suo passato, la giovane regista decide vent’anni dopo di affrontarlo raccontando una storia di disturbo post-traumatico comune a un’intera generazione in Kosovo. Calandosi nel mondo interiore della protagonista e aprendosi a sequenze surreali, che mantengono tuttavia un carattere di crudo realismo figlio della sua esperienza nel documentario, la regista riesce a ricostruire con esattezza straziante l’esperienza traumatica. Al centro della riflessione in Zana è il tema della memoria: il conflitto dei Balcani, rimosso dalla coscienza e dalla memoria collettiva del mondo occidentale, non ha smesso di generare conseguenze nella vita di chi lo ha vissuto.

Circondata da persone determinate a dimenticare la sofferenza, Lume invece non cerca rimedio alle sue allucinazioni, non stordisce la mente con palliativi, ma stanca il corpo con il lavoro ossessivo e si offre alle sue visioni nella ferma volontà di non superare il lutto, dunque di non sopravvivere. Spesso a chi soffre una perdita si dice che il tempo guarisca, ma Lume è attaccata al dolore come a ciò che resta di chi non c’è più. Se il rimedio offertole dalla comunità consiste in una sorta di sostituzione, che vede nella maternità la riscrittura di un nuovo capitolo, l’assenza è tanto ingombrante nella sua vita da gettarla in una condizione di isolamento. Con sguardo lucido, sempre a metà tra empatia e distacco, Antoneta Kastrati costruisce un’opera necessaria sul tormento della sopravvivenza e sull’omertà dei vivi, in cui le immagini perdute e ritrovate di un filmino familiare della protagonista diventano il simbolo della sua personale lotta contro l’oblio: il cinema offre così uno spazio di elaborazione e, forse, anche di cura.