Si dice che sia un tempo impossibile da dire e quantificare, quello del travaglio. Che duri interminabili giornate o poche ore, il dolore e la feroce perdita di autocontrollo restituiscono a ogni donna una percezione differente di questa cesura esistenziale e di ciò che si è diventate nel frattempo. Per questo la prima scelta sorprendente di Kornél Mundruczó è quella di narrare questo passaggio – questo tempo non raccontabile per definizione, dal momento che è la natura stessa a consegnarlo all’oblio, per favorire la prosecuzione della specie – con un piano sequenza. Ad aprire Pieces of a Woman, tratto da un’omonima pièce scritta da Kata Wéber, compagna di Mundruczó, e ispirata al loro dramma personale di genitori “mancati”, sono infatti 30 minuti senza soluzione di continuità, in cui la macchina da presa insegue, fino a cavalcarle, le onde di sofferenza che portano a una nascita, con il corrispondente sali e scendi emotivo di una coppia che affronta tutto questo per la prima volta, tra panico trattenuto e fiduciosa attesa del lieto fine. Rinunciando tanto alla soggettività di un montaggio ellittico, quanto al realismo di una messa in scena clinica e puntuale, Pieces of a Woman inventa letteralmente un tempo e una forma per il travaglio, trascrivendone le misteriose traiettorie fino a sfiorare il limite della pornografia, ma poi stacca proprio quando si tratta di raffigurare una famiglia appena nata, il coronamento di quel “lavoro” (non è un caso che questo processo biologico sia stato chiamato proprio “travaglio”) che dalla notte dei tempi le donne si sono trovate a compiere.

Il decesso prematuro della bambina non interrompe solo la realizzazione di un immaginario borghese, coltivato durante un baby shower o nel candore di una cameretta appena imbiancata, ma spezza la linea invisibile che unisce Martha a sua madre Elizabeth, e quindi a sua nonna, un’ebrea ungherese che ha affrontato sulla propria pelle le tempeste della grande Storia, riuscendo comunque a portare a termine il proprio compito riproduttivo. Lo rivela, nel secondo insostenibile piano sequenza che costella Pieces of a Woman, la stessa Elizabeth (Ellen Burstyn), durante un pranzo organizzato nella speranza di ricomporre i frammenti di un’unità spazzata via dalla cattiva sorte. A lei non interessa, probabilmente, che Sean tradisca sua figlia con la sua brillante nipote avvocatessa: non è (mai stata) l’armonia di coppia a portare avanti il mondo né la Storia, come dimostra la sua vicenda personale. E forse non è un caso che in un dialogo tra gli ospiti per rendere il clima più leggero si disquisisca proprio dei White Stripes, che hanno scalato le classifiche fingendosi fratello e sorella, e non indossando le vesti reali di marito e moglie. Quello che secondo Elizabeth serve a Martha è la pubblica condanna dell’ostetrica che non è stata all’altezza del ruolo, e la certificazione di una responsabilità umana sull’accaduto. Una drammaturgia che contempli vittime e carnefici, riabilitando sua figlia nel ruolo di generatrice di vita. E una lapide che, anche con un’ortografia errata, avvalori che quella bambina non è stata solo espulsa nel mondo, ma è stata anche pensata, immaginata, resa parte della storia famigliare ben prima di nascere. Ancora una volta, ci si aggrappa al simbolico per non inabissarsi nel nulla, come dimostrano le ecografie che Sean e Martha hanno disposto nella cameretta e che finiranno per contendersi dopo il lutto, come il vessillo di un progetto di vita in cui Sean vorrebbe scioccamente continuare a credere, nonostante sia stato il primo a realizzare di aver perso la fede.

Verso l’epilogo, con un assegno e un salto brusco, Mundruczó abbandona all’improvviso le scene da un matrimonio e gli interni cassavetesiani in cui ha incastrato sino a quel momento i personaggi, per condurre lo spettatore in tribunale, dove le emozioni di Martha, protette dalla sua afasia post-traumatica e dalla sensibile interpretazione di Vanessa Kirby, vengono vivisezionate dal difensore dell’ostetrica e dalla curiosità degli astanti. Eppure, laddove potrebbe farsi thriller processuale, Pieces of a Woman rinuncia a pronunciare tesi e argomenti, a incistare nella messa in scena privata un’appassionante recita pubblica, a scatenare lo spettatore contro l’accusata o contro Martha. Perché sono entrambe donne fatte a pezzi, loro malgrado, da un episodio che hanno dovuto condividere quasi casualmente, e che ne ha in fondo ribadito l’identica condizione. Invece di esporre (e far esporre), Mundruczó finisce per condurre la protagonista nell’antro uterino di una camera oscura: uno spazio silenzioso, buio e sospeso, posto al riparo dalle altrui definizioni. Come un cinema, in cui grazie alle immagini è possibile tornare alla luce, sfidare i paradossi inaccettabili della mortalità, sentire l’odore di quello che non c’è più. E reinventare il tempo della propria maternità.


LEGGI ANCHE

VENEZIA 77: THE DISCIPLE