Ormai è evidente: una delle questioni centrali del panorama italiano di finzione, poetica e insieme ideologica, è la capacità di autori e produttori di agire all’interno della macchina cinema per cercare di creare potenziali fratture d’immaginario. Tagli di luce, in grado di dare profondità al mondo rappresentato. Spiragli da cui l’ossigeno possa transitare e irrorare il film in tutte le sue componenti. È un gioco di equilibri sottili, ora più che mai significativo: una contrattazione che investe fino all’ultimo fotogramma, che costa tempo e fatica, ma che in definitiva può percepirsi. Curioso che, nell’anno dei celebrati fratelli D’Innocenzo, gli altri due gemelli del nostro cinema, i torinesi Gianluca e Massimiliano De Serio, presentino alle Giornate degli Autori un film che con Favolacce ha moltissimi elementi di partenza comuni: l’infanzia e le sue relazioni con i padri e con il mondo adulto, la crudeltà della vita e l’intuizione di trasfigurare il racconto in direzione della fiaba nera, l’apertura alle tensioni sociali che investono anche il contemporaneo ma il desiderio di non affrontarle a viso aperto, amplificandone un’ambigua pervasività atemporale.

Al di là di queste interessanti coincidenze, e prescindendo da un mero e forse superfluo parallelismo che evidenzierebbe anche moltissime divergenze, Spaccapietre si contraddistingue per il sincretismo con cui raccoglie e rielabora tensioni presenti in molto cinema contemporaneo, italiano e non: è questa natura aperta, ospitale ma mai derivativa, a fare del film dei De Serio un’operazione fuori dalle convenzioni, che parte da uno spunto biografico-familiare – la morte in giovane età della nonna dei registi, bracciante pugliese – per ricollocarlo in un universo polimorfo e inedito, in cui a regnare è il possibile cinematografico, fuori da ogni categoria preconcetta e coraggiosamente proteso a riformulare lo statuto del racconto e dell’inquadratura. Nell’accompagnare il piccolo Antò lungo l’infernale parabola di lotta e redenzione che con suo padre Giuseppe deve affrontare tra i campi di pomodori di un’indistinta Puglia, dove i due sono costretti a sopravvivere dopo la morte misteriosa e prematura della madre bracciante, i De Serio tracciano un itinerario narrativo e visivo intriso di realismo magico, in cui tutto è fisico ma tutto si appella alla speranza della fantasia, al culto rituale di fantasmi protettori, all’attesa di un evento liberatore.

Sbagliato dunque scandagliare il film sul solo piano della verosimiglianza sociale, che pure emerge nel tratteggio del paesaggio e di molte figure – inutile dirlo, migranti – dei braccianti sullo sfondo alla vicenda, ma che pare volontariamente elusa, scartata, franta. Ai De Serio sembrerebbe interessante rifondare il racconto della realtà sulla struttura dell’allegoria, come già accadeva nel lungometraggio d’esordio Sette opere di misericordia, o più precisamente sulla tensione sacrale del mito, riuscendo a più riprese a conciliare la dimensione del corpo con quella dell’invisibile, e in Spaccapietre non temendo di ammorbidire, in funzione di un’autentica archeologia della tenerezza, la messa in scena di sguardi, parole, abbracci, transizioni emotive.

Il risultato è un film dolente e imprevedibile (una dinamica in crescendo che culmina in un finale di violenza), mai raggelato o soffocato dal primato delle intenzioni, in cui molte sono le scommesse – non tutte necessariamente vinte – ma a prevalere è una rara, preziosa consapevolezza di sguardo, a partire dal tempo cinematografico: il cinema dei De Serio ci riconferma nel sacrosanto diritto di credere all’inquadratura come a un’unità poetica e non semplicemente produttiva. Merito del sodalizio con Alessandro Borrelli di La Sarraz Pictures e di un’interessante operazione di casting: accanto al convincente bambino protagonista Samuele Carrino, convince la scelta del gomorriano Salvatore Esposito, corpo drammaturgico capace di introiettare la brutalità che, in conclusione, renderà ai suoi carnefici, e quella dell’attrice e regista teatrale Licia Lanera, sensibile nel suo lavoro alla dimensione della fiaba nera e qui impegnata in una performance dimessa e caparbiamente trattenuta, per quanto a servizio di un personaggio non perfettamente sviluppato in sceneggiatura.

In esergo al film Sette opere di misericordia compariva la citazione di un mosaico ravennate, “O la luce è nata qui, oppure, fatta prigioniera, qui regna libera”: il cinema di Gianluca e Massimiliano De Serio insiste nel prestare fede alla promessa di trovare una forma di libertà anche nella cattività dei meccanismi del cinema italiano.


LEGGI ANCHE

VENEZIA 77: PIECES OF A WOMAN