Due film francesi, nell’edizione del cinquantesimo anniversario dell’International Film Festival Rotterdam, entrano variamente in tangenza con il Giappone. Uno per la verità molto più a fondo, l’altro in maniera solo molto marginale (per quanto tutt’altro che gratuita).

Del resto al sol levante aveva guardato, e più di una volta, anche Chris Marker – e Dio solo sa quanto un soggetto come quello di Les sorcières de l’Orient sarebbe stato apprezzato dal regista di Sans soleil. Uno dei più clamorosi dream team del mondo, le “Streghe dell’Oriente” furono le pallavoliste nipponiche che conquistarono non solo Tokyo 1964, ma anche qualcosa come 258 vittorie di fila; molto più che un mero fenomeno sportivo, le Streghe furono un fenomeno sia storico che mitologico. Mitologico, perché la loro imbattibilità le portò dentro all’inconscio collettivo, estrinsecato dai media contemporanei: Attack No. 1 (cui anni dopo si richiamarono molte edizioni europee di Attacker You! (1984), al secolo Mila e Shiro, per creare attraverso i nomi dei personaggi un legame con l’originale in realtà inesistente nell’edizione giapponese), manga prima e anime poi, fu ispirato dalle loro imprese. Se entrarono nell’inconscio collettivo, è perché incarnarono (e qui entra in gioco il livello storico) lo spirito di abnegazione ultrastakanovista che permise a una nazione rasa al suolo di rinascere e primeggiare sulla scena globale con un boom industriale ed economico senza precedenti.

Con Les sorcières de l’Orient, Julien Faraut lascia da parte le ultime tracce markeriane ravvisabili ancora nel celebrato L’Empire de la perfection (su John McEnroe); si libera, in particolare, della coscienza letteraria che, in Marker, avrebbe districato il convergere tra Sport, Mito, Storia e altri livelli una volta mutata in cinema dal montaggio. Livelli che, come vedremo a breve, in questo film si fondono direttamente, e senza mediazioni concettuali, nell’immagine della performance sportiva stessa. Su questa immagine, Faraut impernia la sua operazione, la quale verte frontalmente sul rapporto uomo-macchina; l’ipotesi, non inedita ma sviluppata egregiamente, è che il Giappone sia stato la testa di ponte di un’ibridazione uomo-macchina poi compiutamente globalizzata, al punto che oggi possiamo guardare ad essa solo retrospettivamente, come un capitolo concluso. E questo in effetti suggeriscono le immagini del presente, ritraenti alcune delle “Streghe” superstiti, in allarmante forma fisica nonostante l’età parecchio avanzata, oppure intorno a un tavolo, riprese con una panoramica circolare che si direbbe l’anello mancante tra Ozu e La région centrale di Michael Snow.

Da giovani, le “Streghe” si allenavano nei ritagli di tempo lasciati dal loro lavoro in una fabbrica tessile. Riprendendo il girato di The Price of Victory, cortometraggio di Nobuko Shibuya premiato a Cannes nel 1964, Faraut monta insieme i gesti dell’allenamento e quelli del lavoro manuale ai telai meccanici, pronto a far rimare la purezza, la nitidezza e l’essenzialità dei toni cromatici e delle diagonali del materiale originale con quelle delle sonorità elettroniche di K-Raw. La musica si confermerà uno degli assi portanti del film, soprattutto con la riuscitissima sequenza in cui, sulle note marziali di Machine Gun dei Portishead, le massacranti sessioni che resero famoso e famigerato il coach Hirofumi Daimatsu vengono stravolte in una sperimentale sinfonia visiva che intreccia pattern ripetitivi ritmicamente serratissimi.

Ci si può tranquillamente spingere fino a sostenere che la musica pop, anzi proprio la forma-canzone, sia tra i principali criteri strutturali di Les sorcières de l’Orient. I capitoli in cui è strutturato durano perlopiù una manciata di minuti ciascuno, come un videoclip – incluso un altro impressionante pezzo di bravura, che ripercorre la vertiginosa crescita materiale, il miracolo industriale ed economico dopo la capitolazione, accatastando intelligentemente le inevitabili diagonali dei film industriali postbellici non con l’abusata, prevedibile frenesia con cui di solito si montano immagini del genere, ma con solenne, meticolosa, ricercata, lenta gradualità.

Che ci si affidi a tali “capitoli” non privi di analogia con la forma-canzone, altrettanti sospensioni verticali dell’orizzontalità dell’arco narrativo in corso (spesso liquidato con sapienti tocchi sintetici – del tipo: la seconda guerra mondiale condensata in due-inquadrature-due), in fondo non sorprende. Lo hanno detto in tanti (Adorno, ad esempio): la cultura di massa, e soprattutto la musica elettronica, è anch’essa una forma di “training” attraverso cui l’umano perfeziona il proprio meccanizzarsi. Come del resto il cinema, e lo sport. Ed è stato anche detto in varie maniere, nel corso del Novecento, che se la tecnica e il mito sono due modi, per l’uomo, di autoproiettarsi, se l’uomo diventa macchina allora la tecnica e il mito si abbracciano a vicenda fino ad annullarsi.

Il primo match contro il team sovietico riproduce proprio questo convergere esplosivo di Storia, Mito e Tecnica (a propria volta culminante nel sovrapporsi di uomo e macchina). Con virtuosismo, di nuovo, allarmante, Faraut monta insieme le immagini di Attack No. 1 e il repertorio della partita: a un colpo dell’anime risponde una giocatrice in carne ed ossa, e così via. Questa sequenza posta in tutti i sensi al centro del film, maiuscola e davvero emozionante, si duplicherà poco prima della fine, in un climax che Faraut trasforma, intelligentemente, in anticlimax. Tokyo, giochi olimpici 1964. Le Streghe sono in finale, ovviamente di nuovo contro le sovietiche. Gli occhi del mondo sono puntati su di loro, e lo sono soprattutto quelli dei connazionali, ansiosi di sigillare il proprio rientro a pieno titolo nella comunità internazionale dopo la debacle imperiale, forti della recente ascesa socioeconomica (i giochi vennero ambientati a Tokyo proprio per finalizzare quel riconoscimento). Le Streghe vincono, ma Faraut sceglie un registro lontano dalla tonitruante tensione dell’altro match. Molti totali laterali, qualche estratto da Attack No. 1 tra un’azione e l’altra su pubblico e tribune, qualche inserto in avvicinamento alle giocatrici – ma in generale la temperatura emotiva è riconoscibilmente meno tesa, più serena, meno elettrica, più distaccata. Questo perché, a quel punto, la mutazione aveva già cominciato a stabilizzarsi. Dopo la deflagrazione parossistica rappresentata dall’altro match, la confluenza tra Storia, Mito e Tecnica doveva per forza cominciare a fondersi con la normalità (la televisione, salutata in pompa magna proprio con Tokyo 1964, è innanzitutto segno di questo). Dunque laddove un trattamento più banale avrebbe trattato quella finale come una facile apoteosi trionfale, Faraut più sottilmente la tratta come una mera transizione verso il nostro presente.

Nel nostro presente, infatti, la mutazione è definitivamente compiuta. Cosa sia il presente, è un punto interrogativo. Cosa sia il digitale (in felice contrasto con il found footage magistralmente reinventato nel film), è un punto interrogativo. Cosa sia, adesso, l’umano, è un punto interrogativo. Quello che è certo, è che queste risposte vanno cercate non nel presente, ma nel passato. Ciò che noi siamo, non va cercato in noi, ma nella civiltà industriale ormai al tramonto che ha visto l’uomo trionfare, proiettarsi miticamente e dissolversi nella macchina, in quel Big Bang al contrario in cui Storia, Mito e Tecnica si sono ricongiunte, e del quale noi siamo il prodotto.

Nell’altro dei due film in questione, come detto, la presenza nipponica è minima: solo poche rarefatte note che escono dai legni di un musicista giapponese in colonna sonora. Ma trattandosi dell’incontro fatale tra un cineasta come Benoit Jacquot e la scrittrice che lo tenne a battesimo (Marguerite Duras) e che incrociò più volte negli anni successivi, non è un segno da sottovalutare – tanto più che con il Giappone tanto l’uno (che, fra le altre cose, filmò La scuola della carne di Yukio Mishima) quanto l’altra hanno vantato con il Giappone frequentazioni decisive per le rispettive carriere. Un segno minimo, dunque, ma inequivocabile, di reciproca convergenza.

SA

Coerentemente col proprio percorso, Jacquot, portando sullo schermo l’opera teatrale del 1968 Suzanna Andler, conferma un approccio che forse non sarà tanto cantabile ma moderato lo è di certo. Non c’è dubbio che Jacquot graviti verso le astrazioni durassiane, ma è altrettanto sicuro che non se ne fa mai risucchiare; verso gli algidi e ripetitivi loop della scrittrice Jacquot sembra insomma rapportarsi con quello stesso misto di fascinazione e distanza tenuto innanzi agli algidi e ripetitivi loop dello shomyo, canto liturgico buddista cui dedicò un documentario una quarantina di anni fa. Jacquot dunque prende il tardo modernismo della Duras e ne fa l’oggetto di una sorta di “riformismo illuminato”, capace di riavvicinarlo verso la verosimiglianza mimetica senza sacrificare il portato virtuoso del suo partito preso di astrazione.

E coerentemente col proprio percorso, Jacquot trasforma ancora una volta, come spesso gli accade ultimamente (e andando per questo incontro alle incomprensioni della critica, che da tempo di lui non sa bene che farsene), il “ma perché?” in “e perché no?”. Ma perché mettersi nel ventunesimo secolo a fare l’ennesima versione de Il diario di una cameriera di Mirbeau? Poi uno guarda il suo film del 2015 e cambia idea, accorgendosi che non ci sono epoche in cui Il diario di una cameriera NON vada fatto. Semplicemente, i classici universali esistono, ci sarà anche un po’ di strada da fare per portarli al cospetto del qui-ed-ora, ma c’è anche chi, come Jacquot, è bravo a trovare le scorciatoie giuste.

Cosa c’è di più universale del triangolo? Promettendo all’amica poco prima della sua morte di adattare, una volta o l’altra, Suzanna Andler, Jacquot definì l’opera “du boulevard racinisé”: in pratica, isso, issa e ‘o malamente che escono dai vicoli e guadagnano la stilizzazione del teatro con la T maiuscola. Cosa si presta al melodramma o alla commedia popolari meglio della moglie di un parvenu che cerca una casa in Costa Azzurra in cui incontrare l’amante? Ecco: Suzanna Andler prende un soggetto pronto per quel tipo di coinvolgimento “di pancia” che a posteriori invece produce distanza e respingimento spettatoriale, per tentare il percorso inverso, scegliendo un approccio tutto “di testa” attraverso cui invece il soggetto viene preso sul serio, non senza addirittura qualche forma di empatia.

Tutti mentono, come da copione. All’inizio Suzanna sembra l’unica a non mentire; poi scopriamo (senza nessuno scossone registico) che mente come tutti, ma allo stesso tempo veniamo convinti dell’ipotesi di uno degli altri personaggi, secondo cui solo Suzanna, in fondo, dice la verità. Questo perché, in un film diviso tra il soggiorno dentro la villa e gli esterni ma che continuamente li raccorda l’uno con l’altro, a cominciare da quella grande porta-finestra spalancata all’inizio, Suzanna è l’unica che abita contemporaneamente dentro e fuori, il vero e il falso, il desiderio e il suo fantasma. In pratica, è un’isterica. Ma non ci sono donne, e non ci sono uomini, che NON siano isterici. Anche lei, dunque, mente come tutti: parla in terza persona di una donna che lei ha visto dal balcone là, sulla spiaggia, ma noi l’abbiamo vista appena qualche scena prima, quella donna era lei stessa. Solo la sua menzogna, però, è apertamente non sostituzione del dentro col fuori, ma indecisione tra il dentro e il fuori. Solo lei dunque è quello che sembra, cioè sincera, non “nonostante” non lo sia, ma proprio perché non lo è e lo sembra soltanto. Dunque tutti sono isterici, perché doppi, ma lei di più perché porta questa doppiezza in superficie, e la fa apparire più che essere.

Nessun eccesso espressivo perturba le ordinarissime fattezze di Suzanna (Charlotte Gainsbourg), ordinarie quanto è ordinaria l’isteria. Ma si nota comunque con una certa facilità che essere quello che sono tutti è, per Suzanna, motivo di qualche inquietudine. Stare sempre in mezzo tra dentro e fuori, desiderio e suo fantasma, compagno/a e amante, porta a perdere il godimento, perché illocalizzabile. In questo, il fedifraghissimo marito, che sentiamo solo al telefono senza vederlo mai, è proprio come Suzanna, dunque Suzanna può amarlo solo a distanza: lo ama perché sa di essere nel suo stesso vicolo cieco, ma la sua presenza sarebbe intollerabile perché gli ricorderebbe che oggetto del desiderio e di identificazione non possono coincidere. Per questo quando anche l’amante (Niels Schneider) si trova ad abitare la stessa soglia tra dentro e fuori che abita lei, quella terrazza che per la verità è solo una delle soglie (le rocce, la spiaggia etc.) in cui il film moltiplica le transizioni tra l’interno del salone e l’esterno assoluto del mare, Suzanna si trova innanzi al proprio desiderio, che è quello di far sì che almeno l’amante sia qualcosa di diverso da lei, anche a costo di scaraventarlo giù, facendogli abitare un fuoricampo (ma morte) che nemmeno al marito è dato abitare. Almeno uno che stia tutto di qua o tutto di là. E invece niente: nessun omicidio, perché in quel caso non ci sarebbe più alcuna oscillazione tra il desiderio e il suo fantasma, Suzanna non sarebbe più isterica, dunque non sarebbe più niente. Ma incontrato davanti a sé il proprio desiderio, Suzanna non ha più scelta: non può che riconoscere se stessa nell’altro (nell’amante). Come noi spettatori stessi siamo chiamati a riconoscerci in un personaggio salvato eroicamente dalla caricatura come Suzanna. Un personaggio che, come sentiamo dire a un certo punto, “è un mistero penetrabile sono attraverso il desiderio”. Ma è una definizione che vale per chiunque. E dunque non è che un altro esempio dell’oscillazione che Marguerite Duras notoriamente esaspera nel suo linguaggio: precisione e vaghezza.

Se il linguaggio durassiano si confronta con la soglia teatrale dentro-fuori (dunque quella tra il desiderio e il suo fantasma etc.), cercando di darle una forma, il linguaggio di Jacquot tenta una simile estrinsecazione formale soprattutto all’inizio. È poco dopo i titoli che veniamo introdotti nel dentro-fuori che Suzanna abita con una panoramica verso l’interno, a destra, mentre Suzanna esce invece sulla terrazza a sinistra. Più volte ancora la macchina da presa si renderà evidente in modo analogo, con figure grammaticali spesso organizzate in pattern di ripetizioni-variazioni a cui spetta l’onere di riprodurre, minimizzandole, le ripetizioni ossessive del linguaggio durassiano. Col proseguire del film, tuttavia, ci si accorge che questi interventi in prima persona della macchina da presa tendono a diradarsi, e la regia invece ad essere sempre più funzionale alla recitazione degli attori. Recitazione che lascia da parte le astrazioni durassiane per abbracciare invece, più modestamente, il registro della verosimiglianza. Ma l’astrazione non la si lascia da parte tanto facilmente, e ritorna in altra forma. Ritorna, nel caso presente, in una strana forma di recitazione deliberatamente sotto le righe, piallata, tendente all’uniformità. In effetti, tutti i personaggi, e soprattutto Suzanna, sono già arrivati alla fase estrema dell’isteria, quella che segue la perdita della possibilità di localizzare il godimento, e quindi la perdita del godimento stesso. Sono adulti, nel senso più banale del termine, e in quanto tali appaiono, banalmente, devitalizzati. Ma stringendo sempre più su di loro, finanche chiudendo quella porta-finestra spalancata all’inizio, la macchina da presa si accorge di una qualche forma di vita post-mortem che riaffiora da quell’uniformità. In questa strana espressività post-anti-espressiva che è la cifra della direzione degli attori di Jacquot in questo film, la linea tra dentro e fuori viene definitivamente abolita, e passa nel momento illocalizzabile in cui l’espressione nasce dal proprio contrario. Da nessuna parte, ma soprattutto dappertutto: come dappertutto è l’isteria, così dappertutto che non c’è alcun bisogno di eccessi espressivi, di cui giustamente (e in contropiede rispetto al soggetto, come vuole quel “boulevard racinisé” che è la pièce originaria) qui non c’è traccia.

Nell’anno in cui Almodovar torna su La Voix humaine di Cocteau, Jacquot fornisce l’anello mancante tra quello e Il fidanzato, l’attrice e il ruffiano, di quei due cineasti amatissimi da Duras che furono Straub e Huillet. O se si vuole, un ponte “anaffettivo” tra Lubitsch e Beckett. Ma perché farlo proprio nel 2021? E perché no?