Ricordo sempre con intimo, quasi amaro piacere quei pomeriggi di maggio o di giugno, in cui, tornando da scuola, coglievo nell’aria il primo sentore dell’estate: quando già si intravedeva, oltre la fine del quadrimestre coi suoi giorni scanditi e progressivi, il cielo terso e mite di un tempo diverso, di un Mediterraneo ardente e trasognato, carico di grazia come certe poesie di Sandro Penna.

Sta (almeno in parte) in quelle fantasie luminose d’adolescenza il senso di L’été l’éternité, primo lungometraggio di Émilie Aussel presentato a Locarno nella sezione Cineasti del Presente. Anche nel film (come del resto in Penna) si respira il tepore un po’ alessandrino di una gioventù semi-divina, fuori dal tempo. O meglio: racchiusa in un tempo suo proprio, in cui ancora si allunga il cosmo sicuro dell’infanzia, ma già emergono pulsioni nuove, l’impulso ad aprirsi al mondo e alle sue misteriose promesse. È una stagione formidabile, in cui passato e futuro si abbracciano in un presente vitale, allo stesso tempo immanente e come sospeso.

Dico ‘almeno in parte’ perché Aussel abbandona presto questa rêverie de jeunesse per entrare nell’orbita di un altro tempo astratto, per così dire: quello del trauma. È l’estate della maturità: l’ozio di un gruppo di adolescenti in vacanza a Marsiglia viene sconvolto quando una di loro, Lola, scompare in mare. Lise, amica e confidente, si richiude su sé stessa, abbandona il gruppo, e accetta invece l’ospitalità di una piccola troupe di teatranti. Su questo canovaccio minimo il film innesta uno studio di personaggi che si appoggia sulla figura di Lise pur rimanendo, a tutti gli effetti, corale.

Alle due dimensioni temporali di cui accennavo sopra—quella mitica e alessandrina dell’adolescenza, e quella congelata del trauma—Aussel accompagna due diverse strategie di messa in quadro. Per esplorare il non-tempo del trauma, il film ricorre a delle interpellazioni in camera, monologhi di derivazione teatrale, in cui i personaggi si rivolgono a figure perdute del proprio passato. Una soluzione elegante, ma in ultima analisi fallimentare. Se pure traduce bene l’alterità, e il senso di rimozione che si prova a vivere dentro la perdita (in un mondo che si è fermato), la riconciliazione cercata da questi dialoghi impossibili (la sublimazione artistica, se si vuole) fatica a raggiungere lo spettatore, per il quale la modalità retorica ricalca troppo da vicino moduli documentaristici ai quali il cinema è più abituato.

Più efficace è la sottrazione di ogni esplicita marca temporale dalla messinscena, che lascia sfumare il racconto in una sorta di presente sotto vetro, sulla scolta di Philippe Garrel. Sulla stessa falsariga si muove la colonna sonora dei Postcoïtum, in cui si mescolano suggestioni strumentali e minimalismo elettronico.

Ma è nel registro mitico che il film ottiene, suo malgrado, i risultati migliori. Le sequenze iniziali, coi ragazzi sulla spiaggia, irradiate dalla luce dolce del Midi, sono imbevute di una naturalezza priva di fronzoli, frutto del lungo lavoro di preparazione (anch’esso di stampo teatrale) svolto dalla regista, che ha adattato il canovaccio ai vissuti dei giovani interpreti, coltivando spazi di improvvisazione e spontaneità. L’intenzione, abbastanza palese, è quella di lasciare che la familiarità generata nel percorso di avvicinamento al film si traduca, nell’inquadratura, in una sorta di naturalezza immediata, priva di coordinate (narrative): un riverbero di vita irradiato di sole che trabocca direttamente nell’immagine. Non funziona, ovviamente, così.

Paradossalmente, il film fallisce e riesce per lo stesso motivo. Fallisce nei moduli più smaccatamente teatrali (i monologhi in camera) perché attende da questi codici ‘di presenza’ un impatto che al cinema non hanno, sopraffatti come sono dall’interferenza di altri codici molto più forti (come quelli del documentario). A teatro, un soliloquio rivolto a una figura perduta apre uno spazio-tempo interiore, oltre il presente scenico. Al cinema, l’interpellazione in camera sospende la meccanica del desiderio che rende l’immagine permeabile allo spettatore: ottiene, in sostanza, l’effetto opposto.

Il film fallisce anche nell’immaginare che ci sia ‘qualcosa’ in quei giovani, qualcosa di inafferrabile che la prossimità e la familiarità acquisita debbano e possano osservare, rispettare: dico l’idea di una verità segreta che si esprima attraverso l’interprete e che prenda forma nell’atto di recitare. Forse a teatro: ma nel cinema, per banalizzare Bazin, si può credere all’immagine o si può credere al mondo. Al mondo interiore no.

Eppure, dicevo, in parte L’été l’éternité riesce. Riesce perché l’approccio contemplativo che vorrebbe lasciare spazio alla verità segreta di questi adolescenti finisce, invece, col lasciare spazio allo spettatore. E così, da un lato, le immagini del film finiscono per evocare il fascino iconografico e letterario che sul corpo dell’adolescente si concentra da secoli, da Antinoo alla Cecile di Sagan. Dall’altro, finisce per suggerire alla memoria tutta una mitologia di altri film, fatti di cameratismo innocente e avventure estive mai davvero vissute. In un momento di sorprendente lucidità, una dei personaggi secondari, rivolgendosi nel suo monologo a Lola, chiosa: “sei tu che mi ha fatto scoprire tutto quello che avevo visto nei film e che sognavo di conoscere.”

Ecco, nei suoi momenti migliori L’été l’éternité ci fa ricordare cosi si provava, da giovani, a sognare di conoscere tutto quello che avevamo visto nei film. Perché tutto si perde: anche l’adolescenza. Ma ciò che resta, al cinema, non è la morte. Sono le immagini.


L’été l’étérnité fa parte della rassegna Locarno a Milano, in cui i migliori film del 74° Locarno Film Festival verranno presentati al Cinema Arlecchino di Milano.

Per info e biglietti: lombardiaspettacolo.com

Per la scheda del film: https://leviedelcinema.lombardiaspettacolo.com/18m/lete-leternite-di-emilie-aussel-1

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