Seppur nella storia del pensiero occidentale sia stato a lungo discusso e messo in crisi, il concetto di mimesi rappresenta ora più che mai un fondamentale strumento critico per poter comprendere il mondo e i cambiamenti che lo investono. Ad esempio, nonostante la loro origine sia collocabile ben prima della nascita dell’internet, i meme (dal greco μίμημα, mímēma, “imitazione”) hanno ricoperto negli ultimi trent’anni uno dei principali dispositivi linguistici di cui la rete si è servita per moltiplicarsi ed espandersi quasi fosse un organismo senziente. Oggigiorno però la questione del mimetismo virtuale appare ancora più significativa se sfruttata per anticipare l’ormai imminente diffusione, e conseguente evoluzione, del metaverso, per quei 4,66 miliardi di utenti ancora ignari di cosa sia, benché questo li abbia già invischiati, a loro insaputa, all’interno delle sue maglie. Duole ammetterlo ma sarebbe controproducente non riconoscere come la realtà si veda sempre più vicina alla nota riflessione platonica che la relega a mera imitazione del cosiddetto Iperuranio, o più semplicemente definito “mondo delle idee”. Il termine mimesi, difatti, deriva dal greco μίμησις (mìmesis) e ha il significato generico di “imitazione”, “riproduzione” con la derivazione da μιμέομαι, miméomai, “(io) rappresento”. Nello specifico, la riproduzione di carattere artistico per Platone si fa doppiamente problematica in quanto addirittura imitazione (l’opera d’arte) di un’altra imitazione (la realtà) che a sua volta poggia su un ulteriore strato. Tale strato, per Aristotele, è ciò che lui stesso definisce come sostanza, dal greco ὑποκείμενον (hypokeimenon), letteralmente traducibile con “ciò che sta sotto”. Questo concetto di sostanza ha da sempre rappresentato, perlomeno dall’antica Grecia in poi, il fondamento attorno al quale costituire l’unità e l’identità dell’essere nel costrutto della realtà. A essa è però contrapponibile un altro principio, Sūnyatā (Vacuità), le cui radici sono ramificate in oriente e più di preciso nel buddhismo. Sottoposti a confronto è possibile affermare come da un lato la sostanza sia ascrivibile a una certa pienezza immateriale e intangibile, il trascendente, mentre dall’altro Sūnyatā svincola l’ente immettendolo in una condizione di sconfinata non-separatezza tra mondo reale e mondo delle idee, l’immanenza. Decadendo dunque questa recisione si invalida in automatico la differenza di statuto che Platone attribuiva all’arte, e non è di certo un caso, anzi è fenomeno di precisi apporti culturali, se in Drive My Car, presentato in concorso al 74° Festival di Cannes e vincitore del Golden Globe per il miglior film in lingua straniera, il regista Ryusuke Hamaguchi non pone alcuna difformità di sorta, alcuna discriminazione qualitativa tra opera d’arte e realtà. Il pensiero giapponese, e quello zen in particolare (la cui influenza è riscontrabile, tra le varie arti, anche nel cinema nipponico, Ozu su tutti), non riconoscono alcuna sostanza.

Yūsuke, attore e regista teatrale (da mimesi deriva inoltre mimos, ‘mimo’, ‘attore’, che acquista il senso specifico di “rappresentazione teatrale”), perde la moglie Oto, una drammaturga, a causa di un’improvvisa emorragia cerebrale. Due anni più tardi gli viene chiesto di mettere in scena Zio Vanja per un festival ad Hiroshima; lì, gli viene assegnata suo malgrado una giovane autista, Misaki, che per poter ottenere tale posizione lavorativa, allo stesso modo degli attori ingaggiati per lo spettacolo teatrale, deve superare un provino. Provino con il quale Hamaguchi già azzera qualsiasi scissione possibile tra arte (mimesi della mimesi) e artigianato (mimesi dell’Iperuranio). L’audizione infatti non consiste in una classica performance recitativa quanto piuttosto nell’esibire massima padronanza alla guida della macchina di Yūsuke, una Saab 900 rossa. Ed è a causa di un incidente con quest’ultima che Yūsuke nutre verso sé stesso un certo senso di colpa per essere scampato a una morte secca e repentina, a differenza di quanto accaduto alla moglie, il cui decesso gratuito e folgorante non ha lasciato possibilità di commiato.

Se all’interno dello spazio abitativo della limousine del giovane miliardario Erick Packer, protagonista di Cosmopolis, non è più possibile alcuna intimità a causa dell’irruzione incontrollata e irrefrenabile del mondo esterno – tanto che la vettura si rende addirittura spazio adatto a effettuare un esame della prostata – agli antipodi si pone Drive My Car, in cui un velo di privacy e compostezza domina l’abitacolo, prima condiviso con la sola moglie Oto, ora lievemente invaso dall’ingresso di massimo tre personaggi, oltre al protagonista, in tutto il film. Ma come nell’Holy Motors di Leos Carax l’automobile viene animata da una voce, la voce di Oto, registrata e riprodotta dallo stereo, della quale Yūsuke si serve per provare le proprie battute. Perseguendo l’approccio comparativo, nella visione di Carax la macchina si fa camerino, anticamera recitativa che conduce l’interprete ad assumere una miriade di personaggi diversi in altrettante situazioni, quando nella controparte orientale il veicolo è esso stesso palcoscenico, l’unico nel quale Yūsuke, a differenza del protagonista dai mille volti interpretato da Denis Lavant, sente conforto sottraendosi dall’unico ruolo che sembra a lui naturalmente destinato, quello di Zio Vanja.

Drive My Car è un film di destituzioni. Come il sottrarsi di Yūsuke tanto da Zio Vanja quanto dalla guida della propria Saab, anche agli attori della messinscena cechoviana è richiesto da parte del regista di mettersi in ascolto del testo teatrale, di non interpretare e anzi “farsi parlare” dal testo stesso. Mancare le parole equivale a favorire il suono rispetto al senso, il significante piuttosto che il significato, alla ricerca di un non-linguaggio condiviso, primordiale nella fisicità gestuale che lo incarna. Una condivisione che emerge netta dalla natura poliglotta e transnazionale del film: c’è il giapponese, l’inglese, il coreano, il cinese mandarino, il tagalog, la lingua dei segni. Ma più di tutto a svincolarsi dalla prigionia del senso sono le storie, nate come figli dall’atto carnale tra Yūsuke e Oto, verbalizzate brevemente da quest’ultima e dimenticate il giorno dopo, senza che ne permanga alcuna traccia. L’atto creativo, riproduttivo (produrre deriva dal latino ducere, guidare), perde il grado di imitazione, in quanto fuso in un tutt’uno immanente. A tal proposito Daisetsu Teitarō Suzuki, uno dei più importanti storici e filosofi giapponesi, dice:

«Lo zen ritiene che noi si sia troppo soggetti alla parole e alla logica al punto tale che quest’ultima abbia in modo tanto penetrante invaso la nostra vita da sostituirsi ai nostri occhi con la vita stessa o da indurci a ritenere che, in sua assenza, la vita non ha senso. […] Non a caso lo zen è la scuola buddhista più refrattaria a ogni pensiero concettuale, la più scettica nei confronti del linguaggio e della sua capacità di trasmettere quella viva verità che lo zen chiama a realizzare nel modo più diretto.»

La scrittura di Hamaguchi, che qui adatta l’omonimo racconto di Haruki Murakami, è un congegno narrativo perfetto, forse troppo e pertanto richiede al testo alcune forzature che però ben restituiscono la fredda meccanicità dei rapporti interpersonali giapponesi. Misaki ha, guarda caso, la stessa età della prematuramente defunta figlia di Yūsuke, e sempre Misaki ha potuto raffinare a tal punto le sue doti al volante per via della madre, a sua volta spettro che tormenta la ragazza. O ancora frastorna il passaggio narrativo che più incide nel risvolto degli eventi, ovvero l’omicidio di uno sconosciuto da parte del giovane e popolare Kōji, sostituto designato da Yūsuke per il ruolo di Zio Vanja. La tensione apportata dalla temperata irascibilità del ragazzo non giustifica l’apparente ed eccessiva drasticità di tale gesto e forse è proprio tale incongruenza ad aggiungere ancor più verosimiglianza rispetto a quanto i classici schemi del racconto ci abbiano abituati. Il rapporto padre-figlia è talmente esplicito da risultare ridondante, così come didascalico è il processo catartico per il quale il dramma della morte della moglie sembra esistere solo e soltanto in funzione di una più piena espressione artistica del personaggio principale. Ma non è l’eccessiva marcatura a disturbare quanto più l’ineludibile rigore delle fitte relazioni che intercorrono tra i personaggi di Hamaguchi. Ma se in altri contesti ciò costituirebbe una critica negativa, in Drive My Car tale premessa è volta ad avvalorare una forza del film e dei meccanismi che lo regolano proprio perché essi non fanno altro che esporre su più strati lo stato della società nella quale si ambienta la vicenda.

Ne deriva l’immagine di un Giappone sconcertante nella naturalezza con la quale esso (dis)anima i corpi che lo abitano. Un Paese in cui non sembra più esserci spazio per l’imprevisto e tutto, anche i rapporti più apparentemente naturali e genuini sono frutto di una prefigurazione professionale. Un Giappone chiuso, alienato, nel quale il miracolo che il film produce non ha a che fare con chissà quale evento trascendente ma con il superamento di un semplice rapporto lavorativo, nel riconoscere nell’altra una figlia, nell’altro un padre. In un abbraccio che fonde e risana la frattura tra arte e vita provocata dalla morte di una moglie, una madre. Nell’esorcizzare il trauma di un isolamento condiviso non solo nell’intimità dei singoli ma scaturito anche dall’arretratezza emotiva di una Nazione intera.