Nei vuoti delle forme sempre attende di penetrare l’informe. Negli interstizi delle fredde strutture scorre l’inquietudine del mistero. La vita prepara alla dipartita, e la morte (la sua attesa) riporta il tempo della memoria e dell’infanzia. Su queste dicotomie dialettiche e dolorose s’articola Vita terrena di Amleto Marco Belelli dello strutturalista Luca Ferri, presentato nel concorso documentari italiani del 40° Torino Film Festival. A partire dal titolo si deve cominciare a leggere questo film, come si leggono le geometrie degli oroscopi, o degli astri. Amleto Marco Belelli è il nome, vero, del personaggio televisivo del Divino Otelma, mago, esoterista, fondatore dell’ordine teurgico della Chiesa dei Viventi. Nello pseudonimo non a caso risiede già una chiave di lettura del personaggio, e del film: Otelma difatti è il prodotto della lettura bifronte di Amleto. Quali siano i confini tra personaggio reale e fittizio non è dato stabilirlo, perché Amleto-Otelma si rispecchiano indivisibili fino a creare un unico riflesso ambiguo e sfuggente. Di questo riflesso Ferri ne cattura, in maniera arbitraria, una parte, chiudendo la vita terrena – o le vite terrene – dentro una scatola filmica dai contorni ben delineati. Vita terrena di Amleto Marco Belelli ricorda l’immagine di una lucciola che diffonde la sua luce indefinita dentro un barattolo di vetro scolpito con precisione e cura in ogni suo angolo.

Senza il Covid questo film sarebbe sicuramente diverso nella sua forma. Sarebbe, forse, un documentario più “tradizionale”; il dialogo tra il regista e il suo soggetto non avrebbe la distanza imposta dalla quarantena, dalle videochiamate su Skype di cui si compone gran parte del film. Vita terrena di Amleto Marco Belelli, in questa sua versione attuale (tra le tante possibili, date le sessanta ore di girato), si mostra nella sua fragilità come un processo aperto, in costruzione. Ferri decide di esplicitare i suoi mezzi, la fase produttiva, il rapporto instaurato col protagonista attraverso note audio e scambi di doni. Le call dove il Divino Otelma si racconta vengono paragrafate a seconda di un tema e di una data; il disordine del flusso discorsivo della quotidianità viene inquadrato, dalla mano dell’autore e del montatore (Andrea Miele), in un ordine narrativo dall’arco drammatico biologicamente naturale: l’infanzia e la morte stanno ai due estremi.

Alle videochiamate si aggiungono degli intervalli in cui si fa strada la memoria filmata in prima persona dal telefono di Otelma, che ripercorre le strade della sua Genova per rievocare cerimoniosamente insegnanti suicide, giochi infantili sul davanzale della finestra, la città bombardata e sfollata, l’immagine di un bambino in attesa del cibo portatogli dalla madre al di là del recinto della scuola. Questi video s’arrestano di fronte ai portoni invalicabili delle case e del ricordo; di fronte alla tomba della madre sul cui nome si concludono il film e la ricerca delle origini di un personaggio divino (o che si finge tale). Vita terrena di Amleto Marco Belelli parla di morte, ma crepita di vite. Per Ferri mostrare il mistero di un’esistenza significa imprigionarlo in una struttura, nel riquadro definito dell’immagine. In questo caso significa racchiudere il bifronte Amleto-Otelma dentro un film-icona, dove il racconto e l’immagine si imprimono sui due lati di uno stesso medaglione sacro. Come sui due lati della vita e della morte.