Ciò che si racconta a proposito degli anni di piombo, dopo quasi quarant’anni dalla loro fine, è stato ormai più volte deformato dal tempo e dall’irresistibile voglia di accumulare apparenza attorno alla realtà, senza badare troppo a quello che comporta costruire una falsa verità attorno a svincoli così vitali della nostra Storia. Senza contare che per la maggioranza delle persone gli eventi della lotta armata e del terrorismo non sono solo deformati, ma quasi completamente dimenticati, buoni solo per far da contenuto a qualche podcast crime. Un metodo di racconto, quello dell’archiviazione di questo periodo come un mero impulso criminoso, per altro del tutto approssimativo, che bypassa completamente le cause politiche e sociali di ciò che ha condotto a queste azioni, ma soprattutto che mischia e confonde movimenti di sinistra, sfociati poi nella lotta armata, e movimenti di destra, sfociati in veri e propri atti di terrorismo e stragismo. Eppure, conoscere questo dirimente momento storico sarebbe fondamentale per capire cosa è successo dopo, cosa ha spinto la nazione con il più ampio consenso di sinistra in Europa e in generale all’interno di tutti i paesi del patto atlantico, a trasformarsi in un luogo dove il qualunquismo e la reazione regnano incontrastati da ormai trent’anni.

Ma tornando ai nostri ristretti circoli, tra chi prova a conoscere gli accadimenti di quegli anni, la distinzione tra destra e sinistra risulta abbastanza chiara. È chiara, di fatto. I gruppi armati di sinistra compivano omicidi politici mirati, verso obiettivi singoli e non civili: magistrati, politici, generali dell’esercito, e andando oltre sindacalisti, e andando ancora più oltre, giuslavoristi; il terrorismo di destra compiva attentati che colpivano gruppi di civili in determinati luoghi di aggregazione: le così dette stragi nere. I principali gruppi della destra extraparlamentare coinvolti in queste azioni sono stati Avanguardia Nazionale, Nuclei Armati Rivoluzionari, Fronte Nazionale, Ordine Nuovo, Rosa dei Venti. Erano gruppi spesso collusi con il potere statale, con organi interni allo stato italiano, grazie al quale una di queste organizzazioni, Rosa dei Venti, capeggiata da Junio Valerio Borghese, nel 1970 per molto poco non riuscì a compiere un vero e proprio colpo di stato militare che avrebbe sovvertito completamente il governo democratico (o presunto tale) della Repubblica. Non è difficile immaginare come siano stati proprio alcuni di questi attentati, ad opera dei fascisti o spesso anche per mano delle stesse forze dell’ordine (nello specifico la strage di Reggio Emilia nel 1960, quella di Piazza Fontana nel 1969 e ovviamente il Golpe Borghese stesso nel 1970) a istigare la nascita della lotta armata a sinistra, con organizzazioni alcune molto note, altre meno note: Brigate Rosse, Prima Linea, Brigate Comuniste, Collettivo Politico Metropolitano, Gruppi Armati Proletari e molti altri. L’assioma, giusto, documentato e vero, divide quindi nettamente il terrorismo di destra dalla lotta armata di sinistra. Gruppi come Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale hanno di fatto sempre puntato alla conquista del potere assoluto, inserendosi reazionariamente nelle maglie stesse di uno stato in cui le ombre fasciste erano tutt’altro che scomparse.

Con L’irriducibile, l’ultimo film di Morgan Menegazzo e Maria Chiara Pernisa, coppia di cineasti sperimentali tra le più interessanti in Italia, attraverso una messa in scena rigorosa e che non cerca soggettività o punti di vista, i due cineasti intervistano Vincenzo Vinciguerra, militante di estrema destra, passato per Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, che tuttavia costituisce una nana bianca rispetto a tutti gli altri protagonisti del terrorismo nero negli anni 70. Vinciguerra infatti ha sempre rifiutato qualsiasi tipo di collusione con lo stato, ha agito per puro afflato ideologico (se si può definire il neo fascismo un afflato ideologico) e si è sempre rifiutato di colpire civili, compiendo la sua unica azione il 31 maggio 1972 uccidendo tre carabinieri a Peteano, in seguito allo scoppio di un esplosivo artigianale piazzato a bordo di una macchina che aveva attirato l’attenzione degli agenti. Vinciguerra sta tuttora scontando l’ergastolo presso il carcere di Opera.

Il centro nevralgico di questo documentario affronta un punto che può essere attraversato esclusivamente dal cinema, applicato alla dialettica della politica e della morale: la confutazione. Spesso i film italiani hanno tentato di raccontare il periodo del terrorismo e della lotta armata, per esempio una delle opere relativamente più recenti, Romanzo di una strage, si concentra sugli eventi che circondano la strage di Piazza Fontana, commettendo però l’errore di sostenere una tesi privata, trasformando un ipotesi in un postulato, la Storia in una storia, e facendo quindi spettacolo. Menegazzo e Pernisa invece non muovono il discorso sobbarcandosi verità che nessuno sarebbe in grado di sostenere, ma lo spostano suggerendo una confutazione di un discorso diffuso basata su fatti inconfutabili. La risposta a questa messa in crisi non è importante, ma il processo rappresenta uno dei canali più puri del cinema stesso, ed è quello che permette ai film di poter raccontare la politica anche nei suoi anfratti più oscuri.

Di sicuro mettere in scena un periodo storico così ambiguo come quello degli anni di Piombo all’interno di uno schermo non è per nulla facile, il cinema italiano lo ha fatto spesso purtroppo in modo o approssimativo o addirittura reazionario, anche in film apprezzati dai più come Il caso Moro, Piazza delle Cinque Lune, Buongiorno, notte ed Esterno Notte, lavori di grandi maestri che si vantano di prediligere lo sguardo umano in contesti diversi, ma che altro non fanno che portare avanti un individualismo intellettuale in ambiti che meriterebbero una tensione più ampia verso la collettività. Ne L’irriducibile (presentato a Filmmaker, a Torino e a Roma a FuoriNorma) invece, in modo rigoroso, oggettivo, volutamente distaccato, il cinema non vuole raccontare se stesso, ma si ritira per mostrare il dilemma, il dubbio e la messa in discussione. Il film è al servizio del collettivo.

La spinta che ne scaturisce, e che un documentario che apparentemente non ha nulla di sperimentale porta sul piatto dimostrandosi più radicale di molti altri film di questo genere, ci spinge ad andare oltre alla soggettività per poter, finalmente, poter parlare di cinema politico senza che il proprio ego si metta di mezzo.

Anche questo può fare l’immagine a volte, scomparire.