Dopo la prima mondiale a Locarno, Helena Wittmann presenta al 41° Bellaria Film Festival il suo secondo lungometraggio, Human Flowers of Flesh. Filmidee ha conversato con la regista del suo rapporto con la sperimentazione cinematografica, tra citazioni esposte e influenze inaspettate.

C’è stata un’idea, magari un pensiero in particolare, che ti ha spinto a realizzare questo film?

In realtà non è stata una singola idea. Di solito ci sono tante cose che accadono intorno a me contemporaneamente, osservazioni o letture che faccio e che a un certo punto si incontrano, e qui arriva l’ispirazione per un film. Ed è andata così. Stavo attraversando l’Oceano Atlantico per girare Drift, il mio primo lungometraggio, e in questo film la barca e l’equipaggio non avevano spazio perché ero concentrata su altro. Prendevo però molti appunti e osservando la vita in mare mi sono resa conto che volevo approfondire. E poi ho visto la legione straniera francese, che per me apparteneva al passato, e ho realizzato che invece esiste ancora. Ho cominciato a fare ricerca e ho scoperto molte somiglianze tra la vita in mare e la vita in una legione. In entrambi i casi gli uomini vengono da paesi lontani e devono trovare un linguaggio per comunicare. Ecco, è così che ho cominciato le ricerche e il film ha cominciato a prendere forma.

Ogni inquadratura riesce a catalizzare la potenza delle immagini. Quanto studio c’è dietro alla geometria del quadro, e quanto lavori sullo spostamento nello spazio dei personaggi?

Ho un metodo di lavoro molto concreto. Se posso passo molto nei luoghi dove voglio girare e scrivo, ma soprattutto scatto. Si tratta principalmente di fotografie analogiche che negli anni ho raccolto, sviluppando un immaginario. Per mia esperienza credo che i luoghi giochino un ruolo fondamentale nella struttura delle scene che scrivo perché i corpi alla fine sono sempre in relazione con lo spazio. E succede spesso che non ci sia la possibilità di girare in modo tale da riuscire a dire quello che volevo. È sempre una scoperta. Questo è sostanzialmente il mio metodo. Per quanto riguarda i percorsi dei personaggi, il mio riferimento era il libro di Marguerite Duras, Il marinaio di Gibilterra, degli anni ’50. Mi piace molto questo libro, parla di una donna che attraversa gli oceani per seguire un uomo, ma questo non mi interessava. Quello che mi attirava era il tema della ricerca, l’essere costantemente in mare. Ho pensato che alcuni estratti fossero molto in dialogo con ciò che stavo facendo. Mi interessava questa ricerca di un “qualcosa” nel mare e scoprire che proprio a largo mare non c’è un posto dove scappare.

Le riflessioni sul colonialismo all’interno del film contengono un forte significato politico, così come il finale molto negativo.

Io non direi che il finale è negativo. È interessante però notare i vari riscontri. Quando nel film arriva il deserto per qualcuno si tratta quasi di un’inversione rispetto al mare. Un luogo inospitale per l’essere umano dove forse potrebbe andare a finire in futuro, e questo in effetti è negativo. Per altri invece si tratta di un’apertura verso un nuovo spazio. Per me però non si trattava tanto di “chiudere”, anche se la scena finale in cui i personaggi (interpretati da Angeliki Papoulia e Denis Lavant, ndr) si incontrano nell’appartamento a un certo punto l’ho riscritta intorno al film, l’ho cambiata dopo il montaggio perché ne ho avuto la possibilità. Tutta la parte in Africa è stata girata circa un anno dopo. E questo è stato un bene perché, dopo aver montato tutto, ho capito che in questa scena avevano bisogno di incontrarsi e avere un confronto, lei aveva bisogno di confrontarsi con lui. C’è questa frase che gli dice “tu sei dappertutto”, e inizialmente non si capisce se si riferisca a lui o alla Legione o ai militari in generale. E lui risponde “Sì, è vero, siamo dappertutto” e credo sia interessante perché include anche lei e noi come europei. Perché chiaramente è complesso, all’interno di questo discorso sul colonialismo, addossare tutte le colpe all’esercito. È molto più complesso di così. Ed è vero, è molto violento, ma è la realtà in cui viviamo. E penso sia fin troppo facile a volte mettere da parte tutto questo oppure fare la morale. Sentivo che dovevo approcciarmi in un altro modo al problema.  

Il tuo film dialoga in maniera trasparente con Beau Travail di Claire Denis. C’è una correlazione diretta tra i due film e i due finali con Denis Lavant?

Spesso mi viene chiesto che tipo di riferimento sia per me questo film, perché è chiaramente un riferimento. Ma lo è alla stregua di tante altre cose, non c’è bisogno di aver visto questo film per capire il mio. E vale lo stesso discorso anche per il testo di Duras. Scelgo questi riferimenti perché ritengo ci sia una forte connessione. Beau Travail è del ’97 e avevo circa sedici anni quando uscì e per me rimase sempre l’immagine della Legione Straniera francese. Non ne sapevo nulla all’epoca e fino a quando ho deciso di fare questo film. E ho pensato, 25 anni dopo, al personaggio di Galoup, e che il finale del film è aperto. C’è una bellissima scena di ballo ma ciò che accade a lui quando viene cacciato dalla Legione non lo sappiamo. Allora ho immaginato cosa avrebbe fatto un uomo come lui che era riuscito a trovare una sorta di struttura nella Legione e ho capito che sarebbe potuto tornare in un luogo dominato dalla Francia e controllato dalla Legione, continuando l’occupazione, magari vagando come un fantasma. 

La durata delle scene è qualcosa a cui hai pensato prima o è un carattere che il film ha assunto durante le riprese?

Le scene hanno la durata di cui necessitano. Ovviamente la lunghezza di una scena è sempre una questione importante. Ad esempio, la scena sott’acqua è piuttosto lunga, il blu è molto profondo e io in montaggio continuavo ad aggiungerne sempre di più. A volte un frame, a volte un secondo. Ma perché ritengo ci sia una differenza percettiva da rispettare, all’inizio siamo sulla superficie dove il corpo di Ida sta fluttuando e poi ci immergiamo. Questo è già qualcosa che lo spettatore deve in qualche modo digerire. Per me questo permette di percepire le varie dimensioni: la profondità, le bolle che compaiono e quindi suggeriscono la presenza di altri organismi. Ma per riuscire a fare tutti questi passaggi c’è bisogno forse di un po’ di tempo. 

Nei tuoi film risuonano le influenze di un percorso d’arte, forse anche riferimenti alla video arte più aggiornata e ibridata. Come ti sei trovata a gestire una narrazione lineare?

Vengo dal cinema sperimentale, ho fatto un’accademia artistica ma ho studiato cinema e time-based media. Amo il cinema come spazio. Sono dipendente dalla sala, dallo stare immersa insieme ad altre persone nella concentrazione, nell’atto percettivo. Quando mi trovo in spazi espositivi cerco di fare la stessa cosa ma è un lavoro completamente diverso a mio parere. E molto spesso è anche frustrante perché cerco di creare la stessa attenzione che ottengo al cinema ma è un contesto diverso e questo è molto interessante perché ti spinge a esporti diversamente, il dialogo tra questi due spazi è molto interessante. 

Nel film ci sono infatti dei momenti più sperimentali. Puoi parlarci della connessione tra questi e le sequenze più narrative? 

Alcune sono immagini da un microscopio realizzate in 35mm da un altro regista molti anni fa. Me le ha suggerite un amico perché nel soggetto parlavo di immagini al microscopio. Ne ho anche realizzate da me, si possono fare collegando un microscopio alla camera, ma ho sempre pensato che quelle in 35 fossero le immagini di cui avevo bisogno, quindi, gli ho chiesto se potessi usarle. Per me ci sono diverse possibili letture di queste immagini: rappresentano effettivamente microrganismi ma allo stesso possono diventare qualsiasi cosa. C’è così tanto nell’acqua, così come all’interno del corpo umano. A volte quando le vedo mi ricordano le stelle. Insomma, ci sono davvero tante possibilità interpretative. Le altre immagini a cui fate riferimento invece sono ottenute mediante una tecnica pittorica tanto antica quanto facile, si fa fare ai bambini sulla carta. È un composto chimico che si mette sulla carta prima di imprimerci oggetti che restano esposti alla luce solare per circa venti minuti e le parti esposte diventano blu. Il fatto è che io volevo farlo sulla pellicola. Ho sperimentato molto con la gelatina e ogni frame risulta fatto a mano. 

È interessante come hai scritto il personaggio di Ida: in tutta il film si intravede un’idea di femminismo che resta però sottotraccia.

E questo è ciò che volevo, ci pensavo l’altro giorno con Angeliki. Quando ho iniziato a scrivere e a cercare Ida volevo una donna forte e penso di aver creato un personaggio che non si inserisce a pieno in quest’ottica binaria del gender. La sua forza non è quella intesa nel senso tipico, volevo staccare il mio film dalla visione binaria dei generi e non incentrarlo su un’ideologia maschile o femminile. Sono consapevole di essermi rifugiata un po’ in un mondo utopico, quello vero funziona diversamente