Molto spesso di grande interesse, gli articoli dedicati a Phantom Thread, ultimo film di Paul Thomas Anderson, hanno però mostrato il fianco a un’inquieta evidenza: e cioè che la critica, di fronte a un’opera di tale sofisticazione, tenda a rifugiarsi nel principio analitico (e ovviamente legittimo) della penetrazione intellettuale, cercando di dischiudere quell’universo di significazione fatto di citazioni, omaggi, rielaborazioni e intrecci dei generi cinematografici, che certamente esiste ma che non riesce, almeno non completamente, a rendere conto di una possibilità ulteriore. Quella che, da The Master in poi, sembrerebbe spingere l’autore americano verso un gesto sintetico e sottilmente radicale, di fronte al quale il recensore può sì tentare una chiave di lettura alla visione, ma percepirà distintamente la paralisi, quando non la vanità, di una parte del suo discettare. Al punto che i più onesti, pur riconoscendo il valore del film, non possono tacere una vaga sensazione di respingimento, tacciando il lavoro di senilità e conservatorismo, e invocando il perfezionismo del regista, qui esteso al racconto fino a inquinare la psiche del suo stesso protagonista, quale prova inconfutabile dei suoi limiti.

Peccato che le voci dissenzienti o perplesse siano state così poche, o così parziali, perché Phantom Thread non avrebbe meritato soltanto un coro di entusiastiche lusinghe: meriterebbe di essere elevato a caso per discutere, e capire, a cosa ci serva un film oggi e soprattutto quale sia il ruolo della critica, al di là delle sue appartenenze, rispetto alle domande di un pubblico che, quando va bene, esce dalla sala con addosso l’inquietudine un po’ smarrita di chi sente di aver vissuto qualcosa, ma proprio come il critico vorrebbe cercare di fare ordine, e proprio come il critico percepisce di non riuscirci completamente. È come se dall’incontro tra opera e sguardo, cioè tra sguardo e sguardi, si producesse un quid ineffabile e poco attinente al territorio dell’intellezione, della verbalizzazione sia pure emozionale, uno scarto di cui parrebbe difficile capire cosa fare. Non è straniamento propriamente detto, perché Phantom Thread è un film solidamente costruito intorno a un conflitto drammatico calato in una dimensione di realtà, persino nella messinscena di una parentesi allucinatoria di indubbia rilevanza per l’arco del personaggio. Attiene piuttosto alla capacità che Paul Thomas Anderson rivela nel permeare la significazione di significanza – per citare le espressioni usate da Roland Barthes ne Il terzo senso – fino a produrre sottili frammenti filmici di significante senza significato, sospesi “tra immagine e sua descrizione, tra la sua definizione e l’approssimazione”, di difficilissima nominazione forse in ragione della loro incontrovertibile soggettività, del diritto inalienabile, e non necessariamente volontario, di praticare una certa maniera di leggere la “vita”, e dunque il “reale” (quale lettura “oggettiva”, se mai esistesse, potrebbe del resto non tanto negarla, ma ancor prima esaurirla?).

Ben vengano allora Kubrick, Welles, Hitchcock e Falbalas di Becker, ben venga la biografia di Mary Blume dedicata allo stilista spagnolo Cristóbal Balenciaga. Ben vengano allo stesso modo le posizioni di chi, sulla figura del pigmalione egoriferito e misantropo Reynolds Woodcock, evocano il sintomi della patologia, del masochismo, del feticismo. Del resto sembrerebbe folle approcciare il lavoro senza averne attraversato – analiticamente – la profondità o la complessità. Eppure non basta. Perché se ci accontentassimo soltanto del piano di comunicazione e di significazione su cui un film sceglie di intraprendere il proprio percorso, Phantom Thread sarebbe semplicemente un film ben fatto (e poi “freddo”, “chiuso”, “perfezionistico”, e via dicendo). Oltre alla capacità, duplice e per questo molto rara, di scandagliare un racconto e al contempo lasciare che il cinema rifletta su se stesso, Paul Thomas Anderson sembra aver dato spazio, e corpo, alla vocazione sintetica dell’immagine, più precisamente del fotogramma, verso l’ottuso, che “insterilisce” la ricerca dei significati, ma soprattutto “intorbida” il metalinguaggio (cioè la critica stessa).

Per una volta allora ci si appella alla possibilità di tacere la trama (un’esemplare storia di invasione amorosa ai danni di un bambino emozionale interiore), e persino la forma nelle sue scelte più evidentemente drammaturgiche, produttivamente studiate. Tra i tanti articoli che disvelano cosa si nasconda sotto a questo film, ci si riserva il piacere dell’abbandono all’esistenza di un film altro, accessibile (forse solo ad alcuni?) oltre allo “svolgimento dell’aneddoto”, del “sistema logico-temporale”, dei riferimenti ai maestri del cinema, che pure esistono. Qualcosa di destinato a “fondare (se la si segue), una segmentazione totalmente diversa da quella dei piani, delle sequenze e dei sintagmi (tecnici o narrativi): una segmentazione inedita, contro-logica e tuttavia vera”. Senza voler abusare del testo di Barthes, come ignorare la possibilità che questo significante, discontinuo, indifferente e pacificamente dissociato dalla storia e dal suo senso più o meno immediato, non sia affatto vuoto, né arrivi ad essere svuotato, ma si mantenga “in uno stato di eretismo perpetuo”? Del resto parlare di Paul Thomas Anderson significa oggi per (quasi) tutti tentare di partecipare del bilancio, sfuggente, sul cinema contemporaneo: un bilancio che, potremmo anche dire, non riguarda la contemporaneità, ma la capacità che il cinema ha di abitarla. Cioè di emergere in tutta l’infinita apertura del suo dato intrinsecamente puro, quel filmico che, refrattario ad ogni codice, si basa sulla penetrazione della relazione emozionale tra immagine e spettatore. In un film che forse riesce a dare conto di tutta l’ancestrale irriducibilità dell’amore, come non pensare che il desiderio si alimenti della stessa superficie delle immagini, ma senza giungere mai a quello “spasmo del significato che, di solito, fa ricadere il soggetto voluttuosamente nella pace delle nominazioni”? E se fosse questo, ancora una volta, il filo nascosto del cinema?