Presso la Sala delle colonne nella Casa dei sindacati di Mosca è in corso un processo nei confronti di un gruppo di ingegneri, accusati di aver organizzato un colpo di stato contro il governo sovietico. Come aggravante si ipotizza un patto teso a favorire l’intervento straniero per disintegrare il progetto socialista, col beneplacito del Primo Ministro francese Raymond Poincaré e degli émigrés russi in Francia. Le accuse sono del tutto false e infondate, gli imputati sono privi di ogni colpa, il cosiddetto “Partito Industriale” (nome ufficioso della presunta organizzazione sovversiva) non è mai esistito. Ma siamo nel 1930, già da otto anni Stalin ricopre la carica di Segretario Generale del PCUS e il processo va avanti senza intoppi: gli accusati sono costretti a confessare crimini che non hanno mai commesso.

Due anni dopo Austerlitz, Sergei Loznitsa torna alla Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Fuori Concorso con Process, un lavoro che coniuga la ricerca storica con un’operazione di svelamento della natura dell’immagine come documento. Il film è frutto di un lavoro d’archivio nelle profondità dell’apparato propagandistico sovietico: già da qualche anno il cineasta ricercava infatti del materiale per la realizzazione di un film sui processi farsa nell’epoca staliniana tra il 1922 e il 1938. Il progetto iniziale, basato sul montaggio di immagini provenienti da diverse udienze del periodo, ha preso una svolta inaspettata in seguito al ritrovamento di tre bobine integrali riguardanti il processo del cosiddetto “Partito Industriale”, che includono anche il suono registrato in presa diretta. A partire dallo straordinario documento d’archivio, Loznitsa mette in piedi un’operazione di restituzione precisa e unica della messa in scena del regime staliniano: una vera e propria performance pubblica, orchestrata dal procuratore Vyšinskij, tesa a risolvere in termini pseudo-giudiziari gli equilibri di potere nell’Unione Sovietica.

La sensibilità del cineasta si unisce a quella dell’archivista nella scelta di mantenere la durata originale delle inquadrature, fisse e ossessive, sugli accusati, sul procuratore, sul pubblico: una fedeltà che non è unicamente frutto di un’adesione filologica al documento, ma anche un modo per offrire allo spettatore una chiave di svelamento sul dispositivo della menzogna. Nel corso delle interminabili confessioni (forzate ma perfettamente lineari) degli imputati, l’immagine, riproposta nella sua durata originale, assume infatti un tono dubitativo e sospensivo che porta a un inevitabile cortocircuito sullo statuto dello stesso documento che, da veritiero, si fa rivelatore di una fallacia, lasciando a sua volta una traccia storica incontrovertibile.

Pur provando ad affidare ai cartelli finali un commento di segno chiarificatore, utile solo nel vano tentativo di ristabilire la verità storica circa il destino dei presunti cospiratori condannati, sono le immagini a rimanere sul banco degli imputati, e con esse il loro presunto status di documento. Sembra essere questo il grande interrogativo lasciato da Loznitsa in Process: la verità è da perseguirsi ostinatamente al di fuori dei limiti dell’inquadratura? Oppure la sua ricerca non può prescindere dall’immagine? [Alberto Diana]


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LA FORMA DELL’ACQUA

Victor Kossakovsky è stato un grande regista, autore di alcuni tra i più incisivi documentari degli ultimi venticinque anni, a cominciare dal magnifico film d’esordio Belovy (1994). Cineasta dai dispositivi forti, tanto semplici quanto geniali, ha dimostrato di saper raccontare il mondo interiore e quello esterno a partire da punti di vista radicali, come la finestra di Tishe! (2002) o lo specchio “rivelatore” di Svyato (2005). Con gli anni, la sua personalità ha acquisito un profilo “herzoghiano”, quasi da guru, e sono celebri le “10 regole della regia documentaria” che sottolineano la necessità di una forte motivazione personale (“non filmare se puoi vivere senza filmare”), l’idea di una pratica che si basa sulla scoperta (“non filmare se sai già quello che vuoi dire prima di cominciare a filmare”) e sull’approccio istintuale (“hai bisogno del cervello prima e dopo le riprese, ma non durante”).

A partire dall’affascinante Vivan las antipodas! (2011), il suo cinema ha preso una piega più magniloquente che, senza abbandonare i presupposti delle origini, si è spinto verse frontiere espressive, se non più audaci sicuramente più appariscenti. È una tendenza confermata in pieno anche da Aquarela, presentato fuori concorso all’ultimo Festival di Venezia: un’opera di stampo naturalistico che si confronta a viso aperto con il potere dell’acqua – più quello volto alla distruzione che alla creazione – sfoderando un apparato visuale in grado di renderne al meglio la portata (a cominciare da riprese iper-dettagliate realizzate con una macchina che filma a 96 fotogrammi al secondo). Dopo i primi venti minuti, realizzati sul lago Baikal che, ghiacciato, si trasforma in una pericolosa lastra autostradale percorsa a tutta velocità da incauti guidatori che vi finiscono risucchiati in scene grottesche dall’inquietante sapore slapstick, il film vira verso la sinfonia visiva, accostando senza grande costrutto sequenze di smottamenti di ghiacciai, cascate amazzoniche e tifoni tropicali, filmate in diverse parte del mondo. Di fondo dovremmo sentire levarsi un grido d’allarme per lo stato critico in cui versa l’ecosistema, e il regista stesso, in conferenza stampa, ha inneggiato al danno che l’uomo sta procurando al proprio pianeta; ma nel frastuono provocato dalla collisione di immagini e musica (assordante, firmata dalla band metal finlandese Apocalyptica) si rimane travolti, non dalla bellezza ma dal ruggito scomposto di un film che non riesce a trovare la propria forma nell’inseguire quella, sfuggente, dell’acqua.

Così, l’esito dell’opera si consuma nella fascinazione per uno spettacolo che lascia freddi nonostante l’imponenza delle singole scene, confermando l’impressione che il talento e l’ambizione di Kossakovsky si siano trasformati nell’iceberg più ingombrante di questo film. E la petizione di valore che vorrebbe acquisire con la dedica ad Aleksandr Sokurov non fa che peggiorare le cose e sottolineare una volta di più lo scarto che separa la prima produzione del regista da quella attuale. [Alessandro Stellino]


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OMBRE PERDUTE 

Quando la realtà supera l’immaginazione, che responsabilità ha il cinema di raccontare l’assurda condizione che apre al baratro infernale della guerra?

Presentata a Orizzonti, l’opera prima della regista siriana Soudade Kaadan, Yom Adaatou Zouli (Il giorno che ho perso la mia ombra), cerca di affrontare questa domanda raccontando il preludio della guerra in Siria dal punto di vista di una giovane madre. Siamo nel 2012, in uno degli inverni più freddi mai vissuti a Damasco: Sana vede la sua quotidianità frantumarsi a poco poco, piccoli eventi trasformano la vita di tutti i giorni. Dall’interruzione della corrente elettrica e il bisogno di fare la lavatrice fino all’impossibilità di preparare la cena perché si esaurisce la bombola del gas. Questo minimo espediente narrativo apre la protagonista, dalle scene iniziali all’interno della propria casa, al caos esterno dove la prossimità di una guerra ha già intaccato la normalità e i suoi equilibri.

Il punto di non ritorno si delinea di lì a poco, quando Sana incontra Jalal e sua sorella Reem, anch’essi alla ricerca di una bombola di gas, e assieme si lanciano, quasi inconsapevoli, nelle periferie di Damasco, già terra di nessuno. Sana scoprirà che la normalità svanisce con la scomparsa della propria ombra e che, nonostante tutto, la sottrazione di quel riflesso coincide con la saturazione della realtà: chi perde l’ombra diventa un fantasma, presente e assente allo stesso tempo. Ed è questo il tema centrale affrontato dal film: il paradosso dello spettro come la condizione di chi, subendo la violenza della guerra, scompare, diventa invisibile e trasparente. La scena della morte di Jalal ne è forse la prova, con il suo corpo esanime ma senza ferite, fucilato solo in un secondo momento, quando Sana disperatamente lo trascina via per riportarlo dalla sorella Reem. Un riferimento per ricordare la scomparsa nel nulla di migliaia di persone, di cui nemmeno i corpi sono stati rinvenuti.

Kaadan, dopo svariati documentari, esordisce con un film di finzione che scioglie il realismo e l’immagine documentaria dentro un caleidoscopio drammaturgico spesso sorprendente ma lineare, in un crescendo di micro-situazioni che lasciano lo spettatore a volte attonito, altre incredulo. Yom Adaatou Zouli non è però un film sulla speranza, ma su come non lasciarsi soppraffare dalla paura, dal baratro della pazzia (e) della guerra. Un film che aspira a farci comprendere l’intensità del potere dello sguardo, per renderci testimoni di un frammento impazzito di realtà che difficilmente può lasciarci indifferenti. [Roberto Cavallini]


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HA INIZIO IL VOLO DELLA COCCINELLA

Le katana, le spade dei samurai, che vengono forgiate, il fuoco e il metallo. Con questa immagine inizia Zan di Tsukamoto Shin’ya, il suo primo jidaigeki, il film di ambientazione storica. Tecnicamente non il suo primo film storico nella nostra accezione: Tsukamoto aveva realizzato Gemini ambientato nell’era Meiji (1868-1912) e lo stesso Nobi – Fires on the Plain è un racconto della Seconda guerra mondiale. Ma la classificazione nipponica vuole che si definisca jidaigeki un film ambientato prima del 1868. La collocazione temporale di Zan è molto importante. Siamo alla fine del periodo Edo, quel lungo periodo di pace, dal 1603 al 1868, epoca in cui la casta dei guerrieri, i samurai, entra in crisi. Buona parte di questi, i rōnin, gli uomini alla deriva, sprofonda nella miseria. Il cinema di genere, epico, giapponese, ha sempre raccontato idealizzandole le gesta dei samurai in epoca Edo, pochi film (l’esempio su tutti è quello di Humanity and Paper Balloons del 1937) hanno raccontato la loro condizione reale. Ora è Tsukamoto a tornarci, scardinando tutti gli stereotipi del genere classico, la vendetta, il dovere contrapposto al sentimento, l’onore, la nobiltà della sconfitta. Ma nell’epoca di pace si manifestano quei sensi repressi, primordiali di violenza. L’era Edo si conclude con la fase del Bakumatsu, caratterizzata da caos e disordini violenti per l’acuirsi degli scontri tra le diverse fazioni dei pro-imperialisti e delle forze fedeli allo shogunato. I protagonisti del film che vogliono andare nella capitale Edo e poi a Kyoto vogliono proprio unirsi a questi motti, cosa che il film suggerisce in pochi dialoghi, in modo incomprensibile per chi non conosca la storia nipponica. E ancora Tsukamoto si distanzia dai film ambientati in quel periodo, i jidaigeki crepuscolari, i film di samurai al tramonto, incentrati sull’epos della fine di ideali cavallereschi. Dopo Nobi – Fires on the Plain, di ambientazione pienamente bellica, un altro film sulla condizione umana in una situazione di conflitto latente, in fase di deflagrazione.

Il metallo e la carne, l’ibridazione che il regista insegue nel suo “teatro dei mostri”, il nome della sua casa di produzione, si manifestano nei duelli e nei combattimenti, che portano all’estremo quell’estetica dei fiotti di sangue, profusi in gran quantità, tipica del cinema di genere nipponico come dei film di Kurosawa. Dei tre combattimenti del film, il primo rimane fuori campo, mentre gli altri due sono realizzati con una maestria ipercinetica, e in particolare l’ultimo si esaurisce in un attimo. Tsukamoto riprende l’estetica del glimpse (termine che David Bordwell usa per i combattimenti ultraveloci dei film di King Hu, realizzati con constructive editing in cui vengono tolti dei passaggi che diventano così subliminali) velocizzandola ancora di più. Tsukamoto esibisce uno stile di regia forbito che comprende la composizione detta sojikei, con due figure umane, i due protagonisti, accostate nella stessa posizione e postura a sottolineare la loro avvenuta empatia, cui segue la tipica immagine bergmaniana dei due volti ad angolo, in primo piano. Ma soprattutto Tsukamoto crea un’inquietudine costante con la macchina a mano nervosa, mai ferma, e nell’angosciante pianosequenza finale, nel bosco, in una natura comunque non ancora infernale come quella della seconda parte di Nobi – Fires on the Plain. La coccinella sale sull’albero e quando giunge in cima vola via.

ali spiegate –

ha inizio il volo

della coccinella

(Sujū Takano)

[Giampiero Raganelli]


 

UTOPIA FONDATIVA

L’UOMO CHE GUARDA

È NATA UNA STELLA

L’INCONSCIO E IL SUO DOPPIO

NESSUNA RESA

 

SCARPETTE ROSSO SANGUE

LE DOPPIE VITE DEGLI ALTRI

IL CORPO DELLA MEMORIA

NOSTALGIA DEL FUTURO