Si apre oggi a Firenze la 59esima edizione del Festival dei Popoli con la proiezione del nuovo film di Roberto Minervini, What You Gonna Do When the World’s on Fire?, presentato in concorso allo scorso Festival di Venezia. Il regista marchigiano sarà al centro di una retrospettiva completa, nata dalla collaborazione tra la manifestazione toscana e IsReal – Festival di Cinema del Reale, che riproporrà l’omaggio in primavera (Nuoro, 7-12 maggio 2019).

Da sempre capace di coniugare un’originale ricerca stilistica e l’intenso racconto di vite ai margini di un’America rimossa, Minervini è un cineasta militante che rivendica la dimensione estetica del proprio lavoro: con la sua troupe ridotta ma affiatatissima si è schierato dalla parte di un’umanità in lotta per la propria sopravvivenza, a difesa di una dignità rappresentativa fuori dagli stereotipi e dai luoghi comuni. E con il suo ultimo lavoro segna un ulteriore passo avanti a favore di una consapevolezza politica oggi più che mai necessaria, non solo nell’America di Trump.


Con il tuo ultimo film, What You Gonna Do When the World’s on Fire?, mi pare di riconoscere nel tuo percorso cinematografico un moto interno che conduce dall’intimità e dal personale, verso il collettivo e il sociale. Quasi fossi partito dai singoli individui per poi aprirti a uno spaccato più dichiaratamente politico. È così?

Credo ci sia anche un aspetto molto personale, di crescita: con il passare del tempo anche la mia “voce” è cresciuta, si è rafforzata, ho preso coraggio e ho pensato di aver conquistato l’autorevolezza necessaria ad affrontare in maniera più decisa un discorso politico che mi stava molto a cuore. Sempre con l’idea di non farne un monologo ma di dare vita a una dialettica, se non addirittura a un dibattito. C’è poi, evidentemente, il mio essere texano d’adozione, tenendo presente che il Texas è lo stato più multietnico d’America e al tempo stesso anche quello più segregazionista, quindi si partecipa di questa tensione, di questo conflitto – in particolare nella città di Houston in cui vivo: una roccaforte progressista dai confini territoriali molto estesi e circondata da fortissimi moti reazionari che oggi più che mai hanno preso voce, perché grazie alle manovre del presidente Trump i movimenti di estrema destra possono godere di libertà garantite loro dal Primo emendamento. La libertà di espressione si trasforma così facilmente nella libertà di odiare e nei cosiddetti “hate crimes”. L’uguaglianza non è un concetto flessibile, è qualcosa di ben preciso, lo dico perché negli Stati Uniti il concetto di uguaglianza è in qualche modo un concetto perverso. Per me, quindi, era necessario utilizzare questa seppur piccola visibilità mediatica guadagnata con i film precedenti per prendere una posizione ben precisa e testimoniare di quanto sta accadendo.

Anche in questo caso si tratta di un progetto che nasce con delle intenzioni, legato anche alla figura di Leadbelly, e poi perde per strada le proprie origini per trovare una nuova dimensione formale e di racconto. Cosa ha fatto sì che il film prendesse un’altra piega, oltre l’urgenza politica di cui dicevi poco fa? E anche in questo caso sono stati i personaggi che hai incontrato a rivelarti la storia che intendevi raccontare?

Assolutamente sì. Sono partito dall’idea di parlare della musica come ultimo baluardo inespugnabile dell’eredità culturale dei neri d’America, bagaglio poi espropriato per mezzo delle registrazioni fatte dal governo e dallo Smithsonian Institute negli anni ‘30, e uno dei primi spiritual a essere registrati dallo Smithsonian fu proprio What You Gonna Do When the World’s on Fire?. Mi interessava andare alla ricerca delle loro radici attraverso la musica, poi le cose sono cambiate, grazie all’incontro con Judy e il suo bar, in cui si esibiva ogni mercoledì. Ho invertito la marcia: anziché raccontare il passato per parlare del presente, racconto storie del presente nelle quali si riflette la Storia più ampia. C’è sempre un momento, nella realizzazione dei miei film, in cui avviene una sorta di catarsi, perché il momento delle riprese, molto lungo, è preceduto da un’altrettanto lunga fase di frequentazione, uno stare insieme che trascende completamente il cinema e che costituisce la condizione necessaria per poter pensare di realizzare progetti cinematografici come i miei. Si tratta di un cinema che dev’essere vissuto, persino a prescindere dalla realizzazione stessa del film: un cinema che esiste a prescindere dal cinema, mi verrebbe da dire.

La scelta di filmare in bianco e nero è una novità, nella tua produzione. A cosa è dovuta?

A due motivi, nessuno dei quali ha a che fare con il colore della pelle. Da una parte pensavo sarebbe stato importante fornire un equilibrio a tutte le storie raccontate e ai loro diversi contesti: dal momento che non convergono in senso drammaturgico ho pensato di fare a meno di una caratteristica, il colore, che le avrebbe ulteriormente tenute lontane. La seconda ragione è legata all’idea di fornire un aspetto atemporale al racconto: non è la mia storia, quindi mi annullo, mi faccio da parte attraverso la sottrazione del colore, che a volte può essere molto invasivo. Era anche un modo per neutralizzare una concezione del colore proprio della cultura bianca europea, così come lo è il concetto di “bello” ad esso legato. Escludendo il colore abbiamo escluso anche una gerarchia del bello e del brutto, e della differenza, che non ci interessava.

Nel finale del film la domanda che lo sottende (“Cosa fare quando il mondo è in fiamme?”) emerge con forza e trova risposte diverse: da una parte una madre che consiglia al figlio adolescente di essere remissivo e non reagire, dall’altra un gruppo di attivisti che è pronto allo scontro. Mi pare evidente come la domanda, posta nel titolo alla seconda persona singolare, sia rivolta a tutti: è un momento critico in cui ognuno deve decidere da che parte stare.

La domanda è sicuramente rivolta a tutti. Tuttavia, penso che tale domanda non debba semplicemente indurci a una riflessione sul “da che parte stare”. Questo perché, in realtà, non stiamo parlando di “parti” di uno stesso mondo, bensì di mondi completamente diversi. In quello dei neri d’America, ad esempio, quando le fiamme bruciano si muore perché i soccorsi non arrivano. Storicamente, le urla dei neri vengono ignorate dai governi centrali e locali. Sono “l’elemento di disturbo che rallenta il progresso della democrazia Americana”. Basta pensare a ciò che disse Trump in campagna elettorale circa l’incremento della violenza in tutte le principali dowtown nere, ragion per cui sarebbe necessario un maggior intervento da parte delle forze dell’ordine: in realtà, Trump non fece altro che riproporre l’antica strategia politica dell’“ethnic cleansing” (pulizia etnica). Al contrario, nel mondo dei bianchi americani, quando il mondo è in fiamme si scappa via, il più lontano possibile dal calore delle fiamme, in attesa dei soccorsi che puntualmente arriveranno. I bianchi fanno finta di sentire le fiamme che si stanno mangiando il mondo: lo fanno sia come azione (conscia o inconscia) purificatoria della propria coscienza, sia perché pensano (consciamente o inconsciamente) che l’empatia può sopperire all’inerzia politica e militante. Questo è un problema morale e ideologico che non esiste solo in America: in Europa la crisi dell’immigrazione ha portato in superficie moti reazionari, razzisti e nazionalisti in realtà forti già da tempo. Noi bianchi progressisti, americani o europei, comprendiamo appieno la gravità delle diatribe razziali e delle politiche xenofobe che affliggono quasi ogni angolo del mondo – cosa che ci causa anche sofferenza emotiva –, tuttavia riusciamo a dormire sonni tranquilli, nella consapevolezza di un mondo completamente spaccato a metà. Quindi, forse la risposta alla domanda “Che fare…” è duplice: Se si è bianchi, si corre ai ripari. Se si è neri, si scappa da Dio (come dice il gospel da cui è tratto il titolo del film).