Potrebbe sembrare estremamente discontinuo il lavoro dell’autore polacco Paweł Pawlikowski, che ha iniziato con un cinema documentario attento più all’attualità che non alla ricercatezza stilistica (Serbian Epics, 1992, in cui compare la figura ambigua di Limonov), ha proseguito con una serie di titoli da cinema indipendente europeo, fin troppo carichi di invenzioni formali (Last Resort, 2000, e My Summer of Love, 2004), per poi approdare con una certa fatica al cinema d’autore, prodotto prima in Francia e poi in Polonia (dallo sfortunato La femme du Vème, 2011, fino all’Oscar con Ida, 2013). La linea comune in questa carriera piena di deviazioni e di passi falsi è sempre stata ripercorrere i confini che separano l’Europa: fin dai suoi documentari sui paesi slavi, poi nei lungometraggi realizzati in Inghilterra (dove ha vissuto per un lungo periodo), i personaggi dei suoi film sono chiamati a interrogarsi sulle proprie origini, esuli in patria ed estranei nei paesi altrui. Questa scissione non è soltanto tematizzata dalle storie, ma si traduce nella messa in scena in cui gli splendidi corpi degli attori diventano specchio di una costrizione politica: la loro fisicità  è una prigione da infrangere, in una progressiva interiorizzazione delle emozioni che è diventata la cifra stilistica delle opere della maturità del regista.

Cold War (Zimna voïna), presentato nella competizione di Cannes 71, è il film più personale e compiuto dell’autore, che intreccia dei ricordi personali (la storia d’amore burrascosa dei propri genitori) alla spinta verso il tradimento di un Nazione e di un ideale, incarnata dalla coppia di amanti, che si conoscono nel sogno di un ritorno alle origini della cultura polacca per poi perdersi nel momento in cui le cortine di ferro stanno per crollare. Wiktor, un musicologo e compositore, attraversa le campagne registrando canzoni popolari agli inizi degli anni Cinquanta, quando le insurrezioni sono state domate e Stalin intende riportare in auge un po’ di folklore locale. Sarà proprio mettendo in scena uno spettacolo para-governativo che l’uomo incontrerà la giovane e appassionata Zula, spirito indomito che farà di tutto pur di sfuggire alla miseria. Tra i due scoppia l’amore: una rincorsa tra i muri che si stanno alzando in Europa e un progressivo smarrimento, riflesso delle diverse rimozioni operate dai due blocchi.

Cold War prende le forme del melodramma classico, servendosi della musica come espressione di sentimenti che restano contratti nella vita eternamente in fuga dei due amanti. Ma la musica non è paradigma dell’impossibilità dell’amore di scendere a patti con una dimensione terrena (come accade nella Hollywood classica, ad esempio nel film di Irving Rapper Rapsodia in blu), ma campo nel quale si esplicita il compromesso originale da cui saranno segnate le vite di Wiktor e Zula. Il primo a tradire è Wiktor che pensa di recuperare uno spirito perduto e invece sta solo strumentalizzando una tradizione, snaturandola e trasformandola in puro spettacolo. In modo più istintivo, Zula inganna nell’appropriarsi di un canto non suo pur di farsi assumere nella compagnia. Ed è proprio questo doppio tradimento, operato dalla classe intellettuale quanto da quella contadina, a condannare i due, anche quando pensano di raggiungere la felicità finalmente riuniti in una Parigi bobo. Il loro disco finirà in frantumi, segno di un’irriducibilità a lasciarsi comprare dal miglior offerente, ma anche dal disorientamento portato da un’emigrazione forzata. Non ci può essere una patria per il loro amore, stretto tra il potere della Russia stalinista e l’oblio di un’Europa capitalista: il paradiso perduto riposa nei ruderi della propria civiltà, dove la perfezione di una cappella sventrata raffigura l’impossibile rapporto con l’ideale, l’icona del nuovo regno, che servirà da monito sia per chi accondiscende con il potere (l’impresario Kaczmarek che la scopre all’inizio del film) sia per chi la percepisce come inesorabilmente perduta (la coppia d’amanti che passano la soglia della materialità).

Vissuto come Wiktor lontano dal suo paese seguendo le orme dei propri genitori, Paweł Pawlikowski raggiunge un’inedita forza espressiva, grazie alla regia manierata figlia della lezione del grande cinema polacco, ma anche all’atto di concentrare lo svolgimento del film in una manciata di incontri tra i due protagonisti. Un cinema di testa che fatica ad abbandonarsi alle situazioni (ne è esempio la bellissima scena dell’Eclipse, vorticosa e travolgente, ma volutamente troncata) e ai suoi splendidi protagonisti, Wiktor e Zula, eternamente prigionieri delle sue composte inquadrature, in cui l’ambiente grava su di loro, amplificando il senso d’impotenza che li perseguita. Nell’estrema asciuttezza, le ricercate scelte di composizione dell’immagine – e la raffinata fotografia in bianco e nero di Lukasz Zal – evitano i compiacimenti di cui era vittima il precedente Ida, per consacrare definitivamente Pawlikowski cantore di un’Europa intrappolata tra istanze opposte e mai rielaborate.