Dopo la presentazione alla Berlinale nella sezione Panorama, Normal di Adele Tulli sarà presentato in anteprima al Lovers Film Festival di Torino (il 25 aprile, ore 18.30) per poi uscire nelle sale. Il film è il frutto di una ricerca teorica e di un viaggio sul campo alla scoperta delle norme, dei gesti quotidiani e degli stereotipi che modellano la definizione del genere. Senza la pretesa di fornire una lettura univoca delle strutture sociali che determinano la distinzione tra i generi, Tulli mostra, con attenzione e ironia, paradossi e fragilità in gioco nella costruzione delle identità sessuali e di come questo processo incroci la smania per la performance e l’ottimizzazione del sé.

Normal è il risultato di una parte della tua ricerca di dottorato: qual è la tua formazione?

La mia formazione nell’ambito del cinema documentario è avvenuta un po’ al contrario, ho cominciato nel 2010 esplorando il mezzo senza averlo mai studiato: all’epoca vivevo a Bombay e il mio primo film, 365 Without 377, è nato dall’urgenza spontanea di raccontare le storie di amici della comunità LGBT che avevano vissuto il primo anno senza la famigerata legge (Section 377) che condannava le loro identità sessuali. In quegli anni vivere in India vicino alle lotte per i diritti LGBT era come essere immersi in una rivoluzione in atto, l’energia era impetuosa e trascinante. Il piccolo documentario che è uscito fuori da quell’energia ha avuto fortuna e ha girato il mondo, oltre ad aver significato molto per le persone e la comunità coinvolte. Dopo quell’esperienza ho cominciato a capire come il linguaggio del documentario offrisse una forma espressiva in grado di riflettere sui rapporti tra i corpi e le istituzioni e di esplorare, attraverso storie individuali, i meccanismi sociali in cui siamo immersi/e. Ho deciso di approfondirlo tornando a studiare e dopo un Master (Screen Documentary alla Goldsmiths University) e un altro film (Rebel Menopause, il ritratto intimo della storica attivista femminista Therese Clerc), nel 2015 ho iniziato un dottorato teorico-pratico alla Roehampton University di Londra, che è il contesto in cui ho sviluppato il mio ultimo film Normal. La ricerca è cominciata solo con l’intenzione di esplorare forme possibili per articolare una riflessione sulle norme legate al genere attraverso il mezzo cinematografico. Normal quindi è il risultato di un lungo percorso fatto di molti tentativi, punti di svolta e inciampi, tutti necessari per sperimentare nuove possibilità di costruzione dell’immagine e del racconto.

Trovo molto interessante il modo in cui riesci a creare un linguaggio visivo autonomo a partire da un lavoro di ricerca teorico. Come sei riuscita a sganciare le due dimensioni espressive?

La sfida della ‘practice as research’ è proprio quella di incorporare un elemento di pratica artistica nella produzione della ricerca, e lasciare che sia questa a guidare l’elaborazione teorica e l’analisi critica, o quanto meno fare in modo che le due cose si nutrano a vicenda. È una sfida, perché il percorso è pieno di ostacoli. Molto spesso approcciarsi a un tema attraverso la pratica artistica coinvolge l’istinto, i sensi, le emozioni, il corpo, il ‘sentire’ slegato dal ragionamento razionale e questa metodologia scomposta e indisciplinata a volte si scontra con i canoni accademici. Al tempo stesso però, il grande privilegio di concepire un film all’interno di una ricerca di dottorato è quello di avere una libertà totale, e di sapere che quello che conta di più non è tanto il risultato finale quanto il percorso per arrivarci. Questo concede spazio e tempo per sperimentare, riflettere, cambiare. Io ho vissuto questo dottorato come un esercizio di funambolismo tra due dimensioni espressive, quella teorica e quella creativa, in cui si tenta non di tenerle separate ma di metterle in comunicazione senza che una fagociti l’altra.

Hai scelto di filmare situazioni molto diverse tra loro senza aggiungere alcun commento, anche se ovviamente il montaggio è già un pensare per immagini che trascende la dimensione della libera associazione. Secondo quale criterio/criteri ha ricercato e selezionato il materiale? Quali sono secondo te rischi e vantaggi del cinema d’osservazione specialmente quando si lavora su un tema politicamente complesso come quello della normatività?

Per selezionare il materiale, la principale fonte d’ispirazione è stata una ricerca preliminare fatta attraverso dei lunghi viaggi in giro per l’Italia che ho svolto usando una piattaforma di car-sharing. Seguendo un po’ le orme dell’inevitabile Comizi D’Amore pasoliniano, ho viaggiato in auto con sconosciuti dal Nord al Sud del paese, registrando le lunghe conversazioni in cui affrontavo temi legati a genere e sessualità, provando a mettere a fuoco rituali, desideri, stereotipi, gesti e ruoli che spesso senza accorgercene condizionano i nostri comportamenti e le nostre scelte nella vita di tutti i giorni. L’idea era quella di riflettere sulle complesse dinamiche sociali attraverso cui costruiamo e abitiamo le nostre identità di genere. Questi lunghi confronti con le persone più diverse mi hanno aiutata a sviluppare i temi centrali del film, e ad immaginare le situazioni e le immagini che lo compongono, attraversando tutto il percorso della crescita dall’infanzia all’età adulta. Il risultato è un racconto che non segue un andamento lineare, ma che è composto da un mosaico caleidoscopico di scene diverse girate in tutta Italia: una giornata in sala giochi o sulle giostre di un lunapark, il firmacopie di uno youtuber adorato dalle fan, i buchi alle orecchie di una bambina, un motoraduno, un addio al nubilato, un corso prematrimoniale… scene di vita quotidiana apparentemente distanti e slegate tra loro, ma tenute insieme dal racconto del genere come atto performativo collettivo.

Le scene non sono accompagnate da nessun commento perché l’intenzione del film non è didattica o esegetica. Normal prova a suscitare quesiti, ad interrogare il quotidiano, e ad innescare accostamenti e associazioni che riescano a provocare un senso di straniamento davanti allo spettacolo della “normalissima” realtà di tutti i giorni. L’intenzione non è la rappresentazione fedele della realtà, come in gran parte del cinema di osservazione, ma la costruzione di un racconto in cui la realtà può essere interpretata, problematizzata e immaginata nuovamente, per stimolare una riflessione aperta sulla natura performativa delle nostre identità sociali. In questo senso mi sento più vicina alle recenti analisi critiche di Erica Balsom sul cinema di osservazione, secondo cui “the task of vanguard documentary is to problematize, rather than claim, access to phenomenal reality”.

A proposito del documentario d’osservazione, quali sono i tuoi riferimenti cinematografici? Mi è subito venuto in mente il film di Harun Farocki How to live in the FRG e in generale l’interesse di Farocki per le procedure, i protocolli, le istruzioni che ovviamente sono parte costitutiva di tutto ciò che diventa o che percepiamo come normativo…

Penso che i miei riferimenti cinematografici siano tutto ciò che mi ispira e quindi sono molti (da Minervini a Varda, da Geyrhalter a Farocki, da Akerman a Lanthimos, Marker, Trinh T. Minh-ha, Riggs, Steyerl, Seidl…), anche quando non si riflettono direttamente – o in modo immediatamente riconoscibile – sul film. Sicuramente in generale è nell’ambito del film saggio che sento le affinità più profonde, una categoria ibrida dai confini incerti, inteso come cinema che mira a “riprodurre la complessità del pensiero”, come suggerisce Laura Rascaroli, e a dare corpo al mondo invisibile delle idee. Normal non ha protagonisti, né un arco narrativo convenzionale, ma procede per associazioni, cercando di spingere le immagini oltre la loro realtà documentabile, raccontando il quotidiano da un punto di osservazione dai tratti surreali, come in uno specchio allucinato del mondo circostante, che di proposito gioca a confondere i confini tra normalità e anomalia. La realtà, in effetti, non esiste se non attraverso i nostri occhi e Normal, intenzionalmente, mette in discussione l’ordinario, il consueto, il normale appunto, cercando di stimolare nello spettatore nuove chiavi di lettura per interpretarli. In questo senso il film rifugge la differenziazione tra reale e artificiale giocando con l’idea che questa opposizione binaria non solo non si può applicare al cinema ma nemmeno alla vita: anche la nostra vita è infatti il risultato di una complessa convergenza di norme sociali che ci precedono e ci oltrepassano, e che agiscono inevitabilmente su di noi.

Credo che il tuo film sia tanto una riflessione sulla normatività quanto sull’ossessione per l’ottimizzazione del sé, sulla società della performance e sul paradosso di voler essere perfettamente preparati e “adeguati” per affrontare ogni tipo di relazione (emotiva, lavorativa, ma anche con i mutamenti del proprio corpo…) ed evitare possibili “errori”. Puoi dirci qualcosa a questo proposito?

Sì, di fondo il film, attraverso un mosaico di situazioni diverse, cerca di mettere a fuoco la dimensione performativa del nostro agire quotidiano. Quello che mi interessa raccontare con questo lavoro – e qui torna Farocki – non sono tanto gli stereotipi di genere che popolano le nostre vite quanto i dispositivi sociali – le procedure, i protocolli – che spingono ad aderire e a riprodurre i modelli culturali prevalenti.

Puoi raccontarci un po’ di come hai scelto la scena conclusiva del film? Non credi ci sia un po’ il rischio di leggerla come un ulteriore paradigma normativo?

Il finale non lo racconto nei dettagli perché il film sta per uscire in sala, ma la tua riflessione è assolutamente in linea con l’intenzione contro-intuitiva che caratterizza l’ultima scena. Può essere interpretata tanto come una risposta possibile al paradigma etero-normativo dominante, quanto come una nuova forma di assimilazione e allineamento alle norme sociali prevalenti. O come qualcosa che sta nel mezzo: la mia intenzione in realtà è proprio quella di lasciare spazio per le interpretazioni e aprire un ulteriore quesito su cui riflettere. Direi che il finale, come tutto il film, invita a interrogarsi invece che a rispondersi. Cos’è normale? Quanto è normale desiderare la normalità? Cosa si sacrifica per essere considerati normali? E per quali ricompense? Quali sono le norme che definiscono cosa è normale? È possibile sovvertire queste norme se le riproduciamo in modalità inaspettate?

Mi pare importante il fatto che il tuo film esca in Italia a pochi settimane di distanza dal congresso delle famiglie di Verona. Che reazioni ti aspetti? Cosa significa per te? 

Quando ho cominciato le ricerche per il film, il popolo dei family-day cominciava ad animare i dibattiti sul fantomatico gender e a radunarsi nelle piazze contro qualsivoglia tema che si avvicinasse a questioni relative a genere e sessualità (dalla proposta di legge contro l’omofobia, all’educazione alla differenza nelle scuole…). Al tempo sembrava un fenomeno piuttosto marginale come molti fondamentalismi (dai toni cospirazionisti e grotteschi, come la nebulosa crociata contro certe chimeriche ‘lobby omosessualiste’), verso cui forse la risposta più efficace era semplicemente l’indifferenza. Oggi con Verona la situazione è più inquietante perché sebbene i toni e i temi retrivi e complottisti siano gli stessi, ora vengono legittimati con la partecipazione di esponenti del governo. Mi concentrerei però, guardando a Verona, sulla meravigliosa risposta di piazza organizzata dal movimento Non Una di Meno, la rete globale e intersezionale che sembra essere l’unica realtà politica in grado di interpretare il presente e articolare una visione incoraggiante su corpi, identità, relazioni, desideri. Il mio film non ha la pretesa di offrire risposte su questi temi, né si sofferma nello specifico su questioni di attualità, ma spero che possa invitare a riflettere su quanto le norme di genere definiscano il nostro agire quotidiano, regolandone gesti, comportamenti e aspirazioni.