Gli sguardi attenti di alcuni giovani aprono un racconto sospeso sull’intervallo latente tra visibile e invisibile, evocando una dimensione astratta e rituale. I campi di Tourneur, il film della regista e artista tedesco-iraniana Yalda Afsah, sono per lo più fissi, assecondati da rarissimi movimenti di macchina. Una massa informe di schiuma invade una scena notturna illuminata da luci artificiali; l’oscurità sullo sfondo conduce a una dimensione di sogno. I giovani appaiono e scompaiono dall’inquadratura, si nascondono tra i volumi leggeri e mutevoli dell’ammasso schiumoso. Attendono, osservando ciò che lo spettatore non riesce a vedere: fuori campo, una presenza imprevedibile è in agguato, si intuisce nelle posture umane pronte alla fuga. Un toro nero appare d’improvviso e carica i ragazzi che fuggono ai margini del campo visivo. L’animale si dilegua e poi ricompare, si ferma, osserva e riprende la carica.

Yalda Afsah ricostruisce una tradizione arcaica come quella della lotta dei tori nel Sud della Francia con una rigorosa tensione visiva all’insegna di un ritorno alla purezza e strutturazione estetica dell’immagine. Abbiamo conversato con l’autrice nel corso della quarta edizione di IsReal – Festival di Cinema del Reale, dove il film ha vinto il primo premio.


Come nasce l’idea di realizzare Tourneur?

Avevo visto i combattimenti con i tori un anno prima che iniziassi a riprendere, ma non avevo ancora gli strumenti per realizzare un film e neanche un’idea precisa su come dare forma a questo progetto; così ho fatto delle foto e delle brevi riprese con l’intenzione di tornarvi l’anno successivo per filmare con una camera più adatta. Ero veramente molto interessata alla relazione che avveniva fra questi giovani ragazzi e il toro – ogni ragazzo in questo villaggio poteva entrare nello spazio recintato dove avveniva lo scontro – e al valore riconosciuto al tempo trascorso nello stesso spazio con l’animale, al coraggio dimostrato al resto della comunità prendendo parte a questa “lotta”. Ero molto interessata a questo aspetto: anche per questo all’inizio del mio lavoro ho lasciato fuori il toro, mostrando solo i volti dei ragazzi che poco dopo sarebbero entrati in lotta con l’animale. Volti capaci di trasmettere quel senso di paura ed eccitazione racchiuso nell’attesa di vedere e scontrarsi con l’animale.

Puoi illustrarci la decisione di lavorare in maniera così rigorosa sull’inquadratura? Come sei arrivata a questa cifra stilistica, in cui il fuoricampo assume un’importanza così significativa?

Personalmente sono molto interessata al processo che ti permette di trovare dei particolari momenti cinematografici che possano essere quasi avvicinabili alle immagini del cinema di fiction. In queste relazioni ero interessata a cogliere qualcosa che stava avvenendo nella vita reale, cercando di comporre attraverso le inquadrature qualcosa che sembrasse costruito piuttosto che accidentale. In poche parole, cercavo di mostrare immagini di fiction attraverso uno sguardo sul reale. Scegliere di mostrare le reazioni e le azioni delle persone inquadrate in campo, rispetto a ciò che stava avvenendo in un fuoricampo prossimo e insidioso, è dovuto proprio all’intento di trasmettere le stesse sensazioni che vivevano i ragazzi nell’istante in cui il toro iniziava la sua carica: l’attesa, la concentrazione e la paura.

Potresti parlarci del lavoro che hai fatto sul sonoro, scegliendo di escludere completamente la presa diretta?

Solitamente lavoro sul sonoro in maniera diversa a seconda del film che sto girando. In questo caso ho immediatamente deciso di lavorare sul suono in una fase successiva: per rendere al meglio l’atmosfera e per poter esprimere questa sensazione di imprevedibilità, di prossimità e di pericolo avevo bisogno di utilizzare un suono che fosse al servizio di questo particolare pathos cinematografico. Per questa ragione ho creato io stessa gli effetti sonori, lavorando con un sound designer e decidendo di escludere completamente i suoni prodotti dalle azioni e dai rumori legati agli eventi in corso durante le riprese. Ci ho impiegato molto: rispetto alle riprese, che sono durate 2 ore circa, ovvero la durata dello svolgersi dell’evento, la ricerca sul suono mi ha preso circa due mesi.

Potresti parlarci dei tuoi progetti futuri?

Tourneur è solo il primo di tre progetti il cui tema centrale è la particolare relazione tra uomo e animale. In questo film il tema è l’imprevedibile, ovvero l’animale che entra nello spazio predisposto allo scontro e genera conseguenze sullo spazio che le persone condividono con lui. La seconda parte del mio lavoro sarà incentrata sui cavalli da dressage, in cui la struttura stessa della competizione assume per gli animali una forma piuttosto costrittiva, perché obbligati a ripetuti movimenti e posture innaturali. In queste particolari gare c’è un controllo totale dell’animale da parte del fantino. Per poter vincere la competizione il fantino e il cavallo devono quasi essere una sola cosa. È una tipologia di competizione che nasce dalla cultura militare, che attribuisce una notevole importanza all’estetica e alla correttezza di ogni singolo movimento dei cavalli partecipanti. L’ultimo lavoro sarà invece incentrato sui piccioni, animali molto speciali perché in grado di intraprendere viaggi molto lunghi e di ritornare nel luogo da dove erano partiti: sono sempre stati usati per spedire messaggi proprio per il tratto distintivo della loro affidabilità. Nello specifico lavorerò con una particolare tipologia di piccioni, i rolling pigeon, utilizzati nelle competizioni tra allevatori e capaci di compiere rotazioni aeree all’indietro durante il volo. Nessuno sa perché lo fanno, è una caratteristica genetica naturale priva di particolari necessità. L’uomo controlla queste capacità genetiche attraverso una meticolosa gestione della specie, permettendo la riproduzione di quegli esemplari più inclini ad effettuare questa particolare e bizzarra evoluzione.