Classe 1985, Aboozar Amini si è trasferito dall’Afghanistan ad Amsterdam e ha studiato presso la Rietveld Art Academy. Ha realizzato quattro cortometraggi, tra cui l’ultimo, Best day ever, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes nel 2018. In concorso a IsReal Festival 2019, Kabul, City in the Wind è il suo primo lungometraggio documentario e nasce dal desiderio di mostrare quel che si cela dietro la rappresentazione della città che i media hanno costruito negli ultimi anni.


Il film segue due storie: la prima è quella di due fratellini, Afshin e Benjamin, che il regista ha conosciuto mentre stava cercando un carro armato rimasto insabbiato tra le case e oggi usato dai bambini per giocare. La seconda storia è invece quella di Abbas, un autista di autobus, che l’autore ha incontrato trascorrendo intere giornate sui mezzi pubblici, luoghi dall’atmosfera ancora riconoscibile anche per chi come lui vive all’estero da molti anni. Condividendo il tempo insieme ai suoi futuri soggetti, Amini è riuscito a mostrare come a Kabul si viva circondati da un senso di precarietà così forte da sovrastare persino la paura. Lo spettro degli attentati suicidi compare in tutto il film, ma i protagonisti lottano, ognuno a proprio modo, per avere una vita felice. Emerge quindi una rappresentazione vitale della città, attraverso le storie personali dei suoi personaggi, vere e proprie guide all’interno dello spazio urbano. Ma 
Kabul, City in the Wind non si propone soltanto come film militante: attraverso i suoi frequenti “tracking shots”, con la camera che segue i personaggi lungo le strade per lunghi minuti, o le sue particolari interviste riprese in primissimo piano, con il volto dei protagonisti che occupa l’intero quadro, il lavoro si configura anche come un laboratorio di sperimentazione formale. Abbiamo incontrato il regista a Nuoro in occasione del festival e gli abbiamo fatto qualche domanda.

C’è una connessione tra le storie del film e la tua esperienza di infanzia in Afghanistan?

Penso che tutto sia connesso alla tua infanzia, è inevitabile. La creatività deriva dalla tua infanzia e dovunque tu sperimenti si sviluppa gradualmente nel tempo. Può essere che la tua prospettiva cambi, ma la tua fonte di ispirazione è la stessa. Sono nato e ho vissuto lì fino a quattordici anni, poi mi sono trasferito in Europa. Potrei definire l’Afghanistan il paese dove si trova il mio cuore, e l’Europa il paese della mia anima. Perché il cuore è la sede delle tue emozioni, mentre la tua anima è qualcosa che sviluppi e alleni, qualcosa che è in continua evoluzione. Le emozioni sono la risorsa per tutto.


C’è un conflitto permanente nella mente e nella realtà dei personaggi ma nel film c’è anche un’atmosfera poetica che sovrasta questo presagio di morte.


La missione del cinema e di ogni forma di arte non è mostrare il dolore, al contrario risvegliare i sensi nei confronti della sofferenza, senza che la si mostri. Il cinema non è per me un linguaggio diretto: anche il documentario può diventare poetico e questo penso sia l’obiettivo di questo film. Abbiamo visto molti film sull’Afghanistan, sulla guerra, filtrati da uno stile giornalistico, che si limitano a dare informazioni e numeri. “Novelistic” è la parola più corretta da usare: quando sentiamo i numeri accediamo solo a informazioni, invece quando vediamo film poetici sperimentiamo i personaggi in “a novelistic way”. Walter Benjamin distingue due tipi di esperienza: la prima è quella attraverso cui si entra nell’universo del personaggio senza giudizi, ma lo si ascolta e comprende, diversamente dal secondo tipo di strada, che si limita ad essere un’esperienza giornalistica, fatta di numeri e informazione.


Come hai lavorato con i personaggi del film?


Fin dall’inizio sentivo una buona connessione con loro. Sono bravo con i bambini, non so perché, è un dono. I bambini avevano la stessa età di quando io avevo lasciato l’Afghanistan, perciò li capivo totalmente e loro lo sapevano. C’era fin da subito un rapporto di fiducia, ero quasi come un fratello maggiore: quando non li ho chiamati per due settimane di fila, erano molto tristi e mi hanno telefonato rimproverandomi perché non mi ero fatto sentire. C’è anche una connessione psicologica tra noi: il momento più difficile è stato riprendere i loro primi piani. Li ho preparati per giorni, ho parlato loro, li ascoltavo e mi riferivo a loro con un tono di voce diverso. Mi hanno permesso di entrare nei loro sogni, era veramente un momento magico perché potevo vedere tutto quello che loro stavano vedendo. Li guidavo e loro erano quasi ipnotizzati davanti a me e alla camera. Difficile descrivere come certi momenti funzionino, ogni situazione è importante, bisogna essere solo consapevoli di come catturarla, in un atto di comprensione reciproca.

Per quanto riguarda l’uomo adulto, è stato molto difficile relazionarsi con lui dal momento che fa parte della generazione precedente. All’inizio non c’era sintonia, io non mi fidavo di lui e lui non si fidava di me. Poteva essere un uomo pericoloso perché la mia camera era più costosa del suo bus e lui vive nel centro città, dove tutto può succedere. Mi ascoltava ma non poteva capirmi, solo gradualmente ci siamo aperti a vicenda. Dopo un anno, mi ha invitato a casa sua.


Hai usato un iPhone per riprendere alcune scene? Può essere un nuovo modo di fare cinema?


No, questo film è stato girato tutto con la camera, anche se avevo pianificato di fare l’intero film usando l’iPhone perché nessuno ci voleva dare i soldi. Abbiamo proposto il film dappertutto (Spagna, Asia, Marocco, Olanda): a tutti piaceva ma nessuno voleva investire perché dicevano che non era adeguato per la loro politica. Ci sono molte storie cariche di stereotipi sull’Afghanistan, dove si assiste a scontri e combattimenti che richiamano investimenti, ma quando si tratta di film incentrati sulla vita delle persone, spesso la reazione è confusa, e il denaro viene a mancare. L’importante ad ogni modo per me è raccontare una storia, non importa come lo fai. L’iPhone ha una buona qualità, io utilizzo l’app FILMIC che permette un grande controllo sull’immagine, ma la storia deve poter combaciare a questo tipo di estetica.