Osservare, pedinare, quasi sostituire. La camera in During Revolution (Fi al-thawra) diventa l’occhio dei miliziani che combattono per la loro terra, e che vedono infrangersi il sogno di una Siria diversa, tra città tramutate in macerie da un potere invisibile. L’opera prima di Maya Khoury, membro del collettivo Abounaddara, arriva al Concorso Internazionale di Locarno dopo la pubblicazione di una lettera ideale a Serge Daney, dal titolo Dell’impossibilità di una cinefilia siriana, in cui si illustra l’isolamento dei cineasti locali dal resto dell’ambiente cinematografico mondiale, a causa della feroce censura da parte del regime di Assad. Nonostante tutto, il collettivo si serve ormai da anni clandestinamente del linguaggio cinematografico, interpretandolo come strumento privilegiato di una militanza senza fine, seguendo i propri compagni durante gli attacchi a Raqqa e Aleppo, e testimoniando in questo film, dal 2011 al 2017, una rivoluzione che ha portato alla luce uno scontro senza tregua tra gli ideali di rinnovamento civile e l’involuzione di una nazione martoriata da estremismi rabbiosi e da una miseria senza appello.

Il contesto del film è volutamente ridotto al minimo, giusto i punti cardine essenziali per inquadrare luogo e tempo; una scelta di campo che porta lo spettatore a essere frastornato da un’anarchia che solo le immagini di guerra, rese al massimo della loro violenza emotiva (eppure paradossalmente così naturali), sono in grado di restituire. Le esigue coordinate finiscono inoltre per mostrare in controluce proprio l’invisibilità del potere, che nel film si manifesta sotto forma di aerei lontani che sorvolano le città, ma sono anche in grado di annichilirne una gran parte.

Ecco allora che quella stessa camera che aveva seguito i sogni e le speranze di ragazzi in cerca di un futuro diverso si ritrova ad aggirarsi, anch’essa smarrita, in una terra devastata, che restituisce un vero e proprio scenario post apocalittico, quasi distopico: un’automobile che sfreccia a tutta velocità sulla strada principale di una città ridotta ormai a una serie di rovine in sequenza; un gruppo di soldati che cercano sopravvissuti sotto le macerie, e trovando solo un gattino impaurito tentano il tutto per tutto pur di salvarlo; una ragazza che all’inizio della rivoluzione credeva nella possibilità di uno Stato laico, cammina per strada commentando amareggiata i festeggiamenti di un gruppo di uomini che sventolano con orgoglio la bandiera dello Stato Islamico, Daesh.

During Revolution non vuole veicolare semplicemente informazioni, nozionismi distanti che lo relegherebbero a uno dei tanti reportage giornalistici, ma intende, a ogni costo, rendere l’immagine, il lavoro dell’arte, una resistenza che riesca a sconfiggere l’assurdità della realtà, mostrandola per paradosso in tutta la sua impietosa verità. [Mario Blaconà]


IL SOGNO DI UNA COSA

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Presentato nel Concorso Internazionale, Douze Mille di Nadège Trebal disegna i confini di una vita ritratta attraverso il caleidoscopio delle fantasie erotiche e lavorative del suo protagonista: Frank assume alternativamente i lineamenti di un eroe sognatore e quelli di un uomo distrutto, avvilito da un’inconcludente ricerca professionale da rapportare a un ambiente relazionale carico di proiezioni. La camera osserva voyeuristicamente la sessualità e i momenti di erotismo tra Frank e la sua amata, Maroussia, che si espandono sensibilmente in un ampio ventaglio di desideri e istinti esplicitati verbalmente. Ma la centralità del desiderio amoroso, continuamente perseguito, viaggia parallela al pedinamento di una stabilità lavorativa che resta costantemente irraggiungibile.

L’afflato sessuale si profila, per i personaggi di Trebal, come unica ricompensa concreta ai malanni quotidiani, quasi un bisogno costante di amore e vicinanza: i dettagli di una mano premuta sulle sinuosità di Maroussia (interpretata dalla stessa regista), disponibile e profonda come un’odalisca fantasticata, rimandano alla tangibilità del piacere, a un desiderio distillato dalla distanza, ma inesorabilmente destinato a consumarsi. Il desiderio erotico non tarda però a farsi condizionare da quello del denaro: un obiettivo – procurarsi 12.000 euro – che sembrerebbe irraggiungibile, se non fosse traghettato dal vago ideale di uno schema di esigenze materiali appagabili nell’immediato.

Frank e i suoi compagni di viaggio sono completamente votati all’accettazione di una condizione marginale, alla quale oppongono non solo l’antidoto del desiderio carnale, ma soprattutto la trasposizione onirica della realtà. La realtà desiderabile non è vissuta, ma mimata, tutto può realizzarsi in un reale scomposto e alienato, in un grande parco notturno frequentato da super eroi e candy girls, nel quale si rubano gomme da masticare colorate, si inscenano giochi infantili, in cui tutti possono decidere, come invitati a un ballo in maschera, quale ruolo assumere e soprattutto quanto guadagnare. Un’azienda di estrazione petrolifera sorge in un non-luogo, in un’isola che non c’è, metafora di un imprigionamento perenne, confinato, pur nella sua vastità, tra i rumori insopprimibili della realtà, sottofondo ai viaggi eroici di Frank. Il desiderio di sopravvivenza e felicità viene tradotto dalla capacità immaginativa dei personaggi, come se per essere felici bastasse saper immaginare di esserlo, nella consapevolezza che tutto potrebbe concludersi da un momento all’altro, in un risveglio profondamente amaro. [Brigitta Loconte]


PAURA E SOVVERSIONE

love me tender

A tre anni da Il nido, Klaudia Reynicke torna a Locarno nella sezione Cineasti del presente con Love me Tender, per immergersi nel racconto della vita di una giovane ticinese, filtrato da un angolo di osservazione obliquo e nascosto. La casa di Seconda, sin troppo giovane proprietaria di un appartamento di proprietà familiare, raccoglie a stento la luce proveniente dal mondo esterno, simbolicamente racchiuso in una piazza bianca e squadrata. Seconda di due figlie, la ragazza vive dolorosamente in un luogo che trattiene le tracce di una memoria imprescindibile, i segni di una tragedia che a poco a poco decreta la morte di ogni colore e forma di vita presente.

Ogni stanza, vissuta come nel corso di un’eterna e noiosa estate, è satura di elementi e tinte stantie, oggetti usurati e piccoli cimeli, che sembrano ammiccare alla composizione di una natura morta, nella quale si specchia il corpo potenzialmente energico della protagonista, unico barlume di vitalità, alla ricerca di una liberazione. Vitali e incalzanti risultano anche i ritmi musicali di alcuni degli istanti più catartici della vicenda, insieme a quelle che potrebbero essere identificate come delle sorprendenti e a volte pedanti apparizioni di immagini semi-surreali, chiaramente forgiate sulla simbologia del dolore di Frida Khalo: molto probabilmente un modello di resistenza e anticonformismo scelto da Reynicke per sottolineare la forza sovversiva della protagonista.

Costruendo la storia estrema di Seconda, la regista riesce a ritrarre con un gioco metaforico sottile e narrativamente essenziale non solo la paura dello scontro tra una giovane donna e il mondo esterno (i codici patriarcali che lo nutrono), ma anche, secondo un meccanismo inverso, le reazioni difensive o aggressive di chi crede di possedere una forza maggiore e invece si rivela, immancabilmente, portatore delle stesse debolezze e paure della propria preda. Da agorafobica, Seconda sostituisce gli incontri e i contatti quotidiani attraverso un surrogato: le immagini di lezioni di aerobica assorbite passivamente guardando la tv. Ogni confronto con l’esterno si realizza pertanto nell’aderenza a un modello estetico dominante o all’interno di una “tuta-muta” che racchiude il corpo della protagonista, rendendola particolarmente identificabile, ma, al contempo, opaca e insondabile, proprio come uno schermo spento o mal funzionante.

Il suo personaggio, spesso ripreso in istanti di noiosa o euforica intimità (tanto da far pensare alla giovane Akerman di Saute ma ville), pur volendosi sottrarre alla finzione e alle messe in scena della vita, incappa nell’inevitabile, dichiarando a gran voce la forza schiacciante degli schemi di relazione che abitano il quotidiano, e dando origine a un percorso labirintico che avrebbe come unica via d’uscita la morte, se solo non fosse anch’essa beffata da una reazione provocata da agenti estranei e disturbanti. [Brigitta Loconte]


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