Sono parecchie sequenze a restare impresse nel nuovo film di Pablo Larraín, Ema, in concorso al Festival di Venezia, per la loro forza e ricercatezza, per l’utilizzo primario di luce e suono, per la capacità di veicolare la radicalità di un senso attraverso la scultoreità dell’immagine. Non necessariamente tra queste sono le pur intense scene di litigio tra Gastón e Ema, coppia sfaldata nella vita e nel lavoro, alle prese con recriminazioni profonde e ormai insuperabili. Coreografo lui, ballerina lei, si gettano addosso un astio reciproco che il regista filma per mezzo di primi piani frontali che verrebbe da definire “giudiziari”, in un ripetuto campo/controcampo che pone il volto dell’attore in maniera speculare a quello dello spettatore, chiamato evidentemente a relazionarvisi in prima persona. Ma è davvero così? Chi guarda ha realmente la possibilità di stabilire una propria posizione empatica nei confronti di due individui già passati in maniera così evidente attraverso lo scrutinio giudicante dell’autore? Quello tra Ema e Gastón è un processo farsa, il cui esito è già deciso in partenza.

C’è una tendenza del cinema contemporaneo che ancora merita di essere approfondita: quella che pone lo spettatore nel ruolo di osservatore intimo e privilegiato senza davvero coinvolgerlo e chiamarlo in causa, se non in maniera puramente sensoriale, a volte viscerale. Spesso e volentieri per abusare della sua immobilità, testarne i limiti di sopportazione, metterne alla prova la pazienza e sfidarlo al rigetto. E tutto questo, spesso e volentieri, in maniera subdola, senza veramente porre in crisi la forma della rappresentazione, o facendolo solo in maniera apparente, ma anzi ideando una trappola estetica nella quale il concetto di bello si fa tramite per esprimere l’abisso dell’umano. E viene da dire “subdola” non perché il racconto di una crisi di valori debba necessariamente passare attraverso la crisi di una messa in scena, ma perché nello scontrarsi tra apparente profondità del discorso e evidente superficialità dell’immagine l’unica crisi che si consuma è quella propria di tanto cinema d’autore dei nostri giorni.

Vengono in mente i film – non tutti, e ciascuno in maniera diversa – di Lars Von Trier, Alejandro González Iñárritu, Nicolas Winding Refn, Yorgos Lanthimos, e potremo anche aggiungere Pablo Larraín grazie proprio a Ema che, a un certo punto, sembra essere girato da un Almodovar che immagina di essere Gaspar Noé, tra pretestuose incursioni nella sessualità gender fluid e momenti coreografici che rivendicano la priorità del corpo (di Ema) sulla mente (di Gastón) ma si esauriscono nella loro pur riuscita natura performativa. E che dire poi delle inclinazioni piromani della giovane protagonista (una convincente Mariana Di Girolamo) che la portano ad andare a letto proprio con un pompiere? E dell’utilizzo ricattatorio del piccolo Polo, bambino adottato della coppia, vittima predestinata e senza diritto di parola (salvo nel finale, che ha pure strappato qualche risolino incredulo in sala)?

Esistono film configurati come aule processuali, se non addirittura prigioni, all’interno dei quali tanto i personaggi quanto gli spettatori vengono chiamati al banco senza poter testimoniare, ma solo per essere accusati. Film che propongono una forma di contorto piacere masochistico che passa attraverso la negazione del piacere stesso, in primis spettatoriale. È un cinema del supplizio. Fatta salva l’originalità di questa tendenza, ascrivibile solo ai tempi recenti, ci si dovrebbe domandare che cosa l’ha resa così alla moda.