GOOD TIMES / BAD TIMES è un faccia a faccia redazionale intorno allo stesso film, due visioni opposte per suggerire uno sguardo più ampio e mai scontato sul cinema.

GOOD TIMES

Chi ha il potere quando si racconta una storia? Chi racconta o chi ascolta? Chi produce una verità mediante la narrazione o chi decide se accogliere o meno questa verità, accettando o meno la narrazione? All’interno di una storia riposa da entrambi gli estremi un’ingovernabile pretesa di verità e un incrollabile attaccamento al potere del possederla. La questione è annosa e gira intorno al legame a doppio senso che tiene stretti assieme potere e verità: il potere è in grado di produrre la verità e di governare tramite essa, ma anche la verità è in grado di produrre potere e di imporsi tramite esso.

Si prenda il caso di Richard Jewell, l’addetto alla sicurezza che fu accusato di aver posizionato la bomba dopo essere stato in un primo tempo riconosciuto per averne scoperto la imminente detonazione alle Olimpiadi del ’96. Nell’accusa a Jewell due grandi poteri americani, i Media e l’FBI, tentarono di produrre una verità il più possibile rassicurante, confezionarono una storia credibile riproducendo artigianalmente oggetti (file audio, documenti veri presentati come finti, confessioni di fronte a telecamere foriere di legittimità, trasparenza e autenticità) per consegnare una narrazione a cui credere facilmente, una narrazione con un “profilo che corrisponde”, capace di colmare il bisogno di punizione e la necessità di spettacolo del referente-pubblico. Costruirono una storia per immagini, o per costruzioni di senso (come quella del “falso eroe”) esplicate in immagini che intensificarono un pregiudizio di partenza e lo sostennero offrendogli un luogo in cui diventare protagonista. Caso di un potere in grado di produrre la verità, e di disporre la scena e il pregiudizio che la abita. L’azione del pregiudizio è una finta interpretazione dei fatti e delle immagini, un’interpretazione già morta perché predeterminata dall’alto, ed è quindi solo l’attuazione, l’incarnarsi inconsapevole di una decisione presa da altri. Il referente pensa un pensiero già pensato, e il pensiero già pensato è ideologia: l’immagine prodotta dal potere è l’immagine dell’ideologia, la verità di qualcuno che mente.

In che aspetto l’immagine del cinema è differente rispetto all’immagine dell’ideologia? Non sembrano esserci tante differenze, sono entrambe menzogne, sono entrambe dotate del potere di raccontare, sono entrambe reperti a cui è facile credere: se non ci fossero differenze sarebbe legittimato leggere gli ultimi film di Clint Eastwood come tasselli di un cinema pericolosamente vicino alla propaganda, un manifesto ideologico che lascia poca libertà interpretative e propone molte storie dello stesso stampo, quello dell’eroismo genuino a stelle e strisce. Se non c’è differenza e non ci si può fidare del potere, perché fidarsi del cinema? Una differenza però c’è, e consta in una rinuncia: il cinema è un potere che rinuncia alla verità e la consegna agli spettatori, è il contro-potere che annuncia una rotazione in cui non è più il potere a generare la verità ma la verità a generare il potere. Come avviene questa rotazione? Nella rinuncia alla connotazione, alla sovrascrittura del reale e alla finzionalizzazione, attuata per la maggior parte da Eastwood con l’accettazione di una neutralità linguistica, di una regressione linguistica (si pensi alla rinuncia agli attori e alla scelta di persone reali come interpreti in Ore 15:17 Attacco al treno), che è anche accettazione della serena dignità della superficie. L’immagine di Richard Jewell è un’immagine neutrale, che rimuovendo le particelle di linguaggio si nega la possibilità di essere potere e rimbalza l’individuo su se stesso, permettendogli di riconoscere il proprio pregiudizio e allo stesso tempo conferendogli la libertà di decidere. La rotazione è allora rotazione della responsabilità del potere. E la commozione è la fine delle false immagini, lo scioglimento del pregiudizio, l’apertura della possibilità e l’inveramento di ognuno che guarda nella dissolvenza. [Leonardo Strano]


BAD TIMES

Sono passati ormai quattordici anni da quando Clint Eastwood diresse la coppia di film Flags of our fathers e Lettere da Iwo Jima, che raccontano l’omonima battaglia della Seconda Guerra Mondiale attraverso il punto di vista americano e quello giapponese. Due film di un cineasta, quello di allora, che era in grado di immergere il proprio cinema all’interno della complessità della Storia e del superamento del punto di vista americano-centrico, riuscendo ad arrivare ai massimi livelli della sua filmografia. Nell’ultimo decennio però gli USA sono cambiati, l’individualismo di reaganiana memoria è in pericolo (e la presidenza Trump sembra esserne l’ultimo disperato e rabbioso rantolo) e gli ultimi film di Eastwood, forse come reazione istintiva del loro autore, hanno acquisito una piega polemica contro questo presunto cambiamento culturale, pagando però lo scotto della propaganda e trasformandosi così nelle espressioni involutive ed estremamente ingenue delle opinioni di un vecchio pistolero arrabbiato. Questa inversione di tendenza trova uno dei suoi punti più bassi in Richard Jewell.

La linea drammaturgica ricalca il solito dettame dell’ultimo Eastwood: un individuo profondamente radicato nelle tradizioni socio culturali più reazionarie degli Stati Uniti viene sfidato o messo in difficoltà da uno Stato, un Governo, una collettività, messa in scena come un coagulo di ambiguità, rancore mal celato e atavica cattiveria. Questo individuo reagisce di solito a questi soprusi con sprezzante e bidimensionale eroismo, dimostrando quanto l’unico modus operandi che possa in realtà funzionare sia un educato “ognun per sé e Dio per tutti”: ogni uomo (mai donne, che sono di solito messe in scena come malvagie arriviste o come brave e rispettose madri e mogli di casa) è un’isola, e l’unico modo per creare un mondo sopportabile è far sì che il singolo possa crearsi un insieme di regole sue, senza che la collettività si intrometta, per il bene della collettività stessa.

Banale da dire, ma è il cowboy solitario che Eastwood da giovane attore ha interpretato (in film che paradossalmente volevano comunicare ben altro), che deflagra in ogni sottotesto della sua produzione filmica, proponendo il modello dell’America più tradizionalista e genuinamente repubblicana, non post ideologica (o trumpiana), certo, ma piuttosto avamposto di un pensiero atavico di cui ormai è il portatore più scintillante.

Posto che, superato il concetto di critica ideologica (a torto o a ragione), è sicuramente legittimo che un cineasta possa esprimere il suo punto di vista sul reale in una sua opera, quello che svilisce di ques’ultimo lungometraggio è l’afflato con cui ogni suo minimo particolare sia così ottusamente spinto a voler dimostrare una tesi, lasciando indietro approfondimenti psicologici sui personaggi e incedere narrativo. Questa trascuratezza si percepisce chiaramente soprattutto nel delineare quelli che dovrebbero essere “gli antagonisti” (che ci siano degli antagonisti così marcati in un film tratto da una storia vera per altro sembra quanto meno approssimativo), vale a dire un agente dell’FBI e una giornalista locale, il cui percorso evolutivo cambia drasticamente senza la più lontana considerazione di sfumature e stratificazioni di senso.

Sospettoso nei confronti del profiling criminale (elevato invece dalla recente serie tv prodotta da David Fincher Mind Hunter, in corsi e ricorsi storici che il cinema spesso è in grado di mostrare attraverso il dialogo involontario tra un’opera e un’altra) e dell’indagine giornalistica, Eastwood si innamora del tenero agente di sicurezza Richard Jewell, che tra una torta fatta in casa e un inno nazionale, conserva nella sua abitazione un arsenale legalmente fornito dallo Stato della Georgia e che vuole “veder friggere” i terroristi veramente colpevoli dell’attentato alle Olimpiadi di Atlanta del 1996.

Quella propaganda che il regista californiano era riuscito a mitigare un minimo in film come Sully e Il corriere, in Richard Jewell torna a quei massimi livelli di parzialità che solo nel pessimo Ore 15:17 – Attacco al treno era riuscito a raggiungere, e che ci fa ritornare a quel cinema americano ormai inattuale e stantio, figlio di un presunto primato culturale che, per fortuna, sta lentamente arretrando, anche se qualcuno non sembra voler farsene una ragione.

Nota a margine: non appena un giovane Eastwood ottenne il diploma, nel 1948, decise di rendersi indipendente dalla famiglia, per poter restare in California e non essere costretto a trasferirsi in Texas, a causa del lavoro del padre. Quella stessa progressista e democratica California in cui poi ha vissuto per il resto della sua vita. [Mario Blaconà]