A metamorfose dos pássaros (La metamorfosi degli uccelli, 2020) è il secondo film della regista portoghese Catarina Vasconcelos, presentato nella sezione Encounters della Berlinale 2020. Nel suo lavoro di esordio, The Metaphor of Sadness Inside Out (2013), Catarina e il fratello si confrontano con la storia del Portogallo, durante la rivoluzione del 1973-74, per immaginare e scoprire insieme il periodo in cui ha vissuto la madre, scomparsa prematuramente. La metamorfosi degli uccelli è un altro viaggio nel tempo per esplorare le vicende e i rapporti di una famiglia, quella del padre di Catarina, sullo sfondo della dittatura di Salazar. Jacinto e Catarina non sono soltanto padre e figlia, ma sono accomunati dal dolore di aver perso la propria madre da adolescenti: un’assenza che solo la composizione rigorosa ma giocosa delle immagini cinematografiche può tentare di colmare.  La natura e gli oggetti diventano il luogo su cui si deposita il desiderio di toccare ciò che altrimenti è diventato impalpabile.

Vorrei cominciare dai tre elementi naturali – aria, acqua e terra – che in qualche modo rappresentano i tre principali protagonisti del film: la madre, Beatriz, che i figli percepiscono come un albero solido che si solleva da terra per dare loro il sostegno di cui hanno bisogno; il padre, Henrique, è un ufficiale della Marina che scrive lettere alla famiglia durante i suoi lunghi viaggi in mare e infine Jacinto, uno dei figli (tuo padre) che sogna di volare.

Il film è incentrato sulla morte di due madri, mia madre e Beatriz, mia nonna. Mi sono chiesta a lungo “dove saranno adesso”? Non sono cattolica, non credo in Dio ed è una questione per la quale, anche da adulta, non riesco a trovare una risposta… cioè razionalmente sai che non sono da nessuna parte ma continui a sperare che invece da qualche parte siano andate. Quindi ho deciso che nel mio film avrei trovato conforto nella natura. Henrique, mio nonno, era un ufficiale della Marina e il mare è il suo principale elemento. Beatrice invece si prende cura delle piante e quando ho saputo che chiamava i suoi figli “piccoli uccellini”, ho avuto la conferma della sua vicinanza con la natura. Quindi ho pensato di creare questa madre-albero su cui i suoi figli potessero poggiarsi, per colmare l’assenza di un marito viaggiatore “senza radici”. Anche mia madre aveva una passione per le piante e conosceva il nome di centinaia di alberi. In un certo senso, la connessione con gli elementi naturali emerge dai personaggi stessi.

Acqua, terra e aria, ma anche il regno inorganico è una presenza determinante nel tuo film: gli oggetti, parte delle bellissime composizioni che costruisci nelle tue inquadrature, come delle nature morte. Allo stesso tempo però questi oggetti sono anche vivificati dalle tracce della memoria di chi li ha posseduti. Perché hai scelto gli oggetti come protagonisti?

Ho studiato Fine Arts e sono sempre stata affascinata dall’accostamento ossimorico dell’espressione Natura Morta… “la natura non è morta” ho sempre pensato. Questo contrasto mi ha ispirato molto nella composizione delle inquadrature di A metamorfose dos pássaros.

La scelta di dare un ruolo così centrale agli oggetti ha a che fare con la vendita della casa dei miei nonni, quando i figli hanno dovuto svuotare le stanze e dividersi tra di loro tutti gli oggetti. Ho chiesto loro di poterli filmare prima che li portassero via e un giorno mentre li guardavo ho pensato “Wow, questi oggetti sono stati toccati da Beatriz!”, lei li guardava ogni giorno, li ordinava, li puliva. Così improvvisamente questi oggetti sono diventati per me la testimonianza della sua vita. È stato molto commovente, forse suona un po’ naïve ma per me a quel punto gli oggetti non potevano che essere dei personaggi veri e propri.

Quali sono i tuoi riferimenti pittorici?

C’è una famosa pittrice portoghese, Josefa de Óbidos, vissuta nel diciassettesimo secolo. Come donna, in quel periodo rappresentava sicuramente un’eccezione nel mondo dell’arte dominato dagli uomini. Le sue nature morte sono incredibili, c’è una delicatezza preziosa nei suoi quadri. È stata una fonte di ispirazione fondamentale per me e per il direttore della fotografia, Paulo Menezes, con cui abbiamo avuto lunghe conversazioni sulla pittura e su come comporre le nostre inquadrature.

È molto interessante come nel corso del film gli oggetti prendano vita, il modo in cui riesci a riattivare queste nature morte. Non soltanto con espedienti come Giacinto che apre improvvisamente lo sportello di una credenza ed esce fuori dal mobile, ma anche e soprattutto con le parole. Con la voce off, con le lettere, con le registrazioni delle voci è come se gli oggetti venissero “riattivati”.

 Mi piace molto questa interpretazione del ridare vita agli oggetti come una “riattivazione”. Se pensi al film di Chantal Akerman, Jean Dielman, che è uno dei miei film preferiti in assoluto, a quelle scene in cui si vede soltanto il corridoio e si sentono dei rumori. Qualcosa succede senza che ci siano personaggi e questo è stato decisamente una fonte di ispirazione per il mio film, il modo in cui ho usato il suono dei bambini che corrono. Il film della Akerman è geniale anche perché la casa diventa essa stessa un personaggio. Quando sono andata nella casa dei miei nonni per fare le riprese, quella casa era praticamente morta ormai: mio nonno era in una casa di riposo e mia nonna era scomparsa da molti anni. In effetti per me filmare gli interni e registrare alcuni suoni è stato un modo per riattivarla. Quindi mi piace molto questa tua idea.

Ho subito pensato a Jeanne Dielman mentre guardavo il tuo film, soprattutto al vaso poggiato sul tavolo e in cui la protagonista tiene i soldi. Perché è incredibile come nel corso del film, Akerman riesca a dare vita a quell’oggetto e a conferirgli sfumature di significato differenti pur filmandolo nella stessa posizione. I tuoi oggetti in qualche modo hanno questa “vitalità”. Come hai sviluppato la sceneggiatura del film, avevi già scritto molto prima di girare?

 Amo il cinema ma la letteratura per me è fondamentale, specialmente autori portoghesi come Josè Saramago e altri scrittori che in effetti affrontano spesso il tema della morte. Ho anche voluto leggere i libri amati dai miei nonni, Moby Dick, per esempio che non è solo un film sul mare… Ho cercato di portare questi romanzi dentro la mia storia. Avevo un’idea del film già prima di filmare gli oggetti, ma è stato solo dopo una prima fase di montaggio delle immagini che mi sono chiusa in una stanza per cinque mesi a scrivere il testo per la voice over. Realizzare questo film è stato anche un processo molto solitario anche se ho lavorato con un team durante le riprese.

Quindi davvero è come se siano stati gli oggetti a suggerirti la sceneggiatura… c’è una cosa che racconti che ho trovato molto divertente. Da bambina eri convinta che tua nonna fosse quell’unica fotografia di lei che circolava nella tua famiglia. Pensavi, non che quella fosse un’immagine di tua nonna, ma che la foto fosse tua nonna! Solo attraverso le storie di Beatriz che nel tempo la tua famiglia ti ha cominciato a raccontare, quella figura bidimensionale ha preso vita e hai scoperto che tua nonna era stata una persona in carne ed ossa.

Si (ride), è vero che da piccola pensavo che mia nonna fosse quell’unica fotografia di lei che circolava in casa. Su Beatriz c’era una specie di mistero, alcune cose di lei mi venivano tenute nascoste. Questo aveva per me lo stesso effetto di un luogo proibito il cui divieto ovviamente non fa che renderlo più desiderabile. Per me Beatriz in questo senso era un fantasma, un fantasma buono, che ha sempre aleggiato su di me…

Il fatto che Beatriz fosse una donna, ha aumentato la tua curiosità verso la sua vita?

Si… Ogni tanto mio padre si lascia scappare qualche affermazione del tipo “credo proprio a mia madre sarebbe piaciuto lavorare”. E perché non lo ha fatto? Beh siamo negli anni 50, 60, sotto la dittatura di Salazar e mia nonna aveva 6 figli, era la moglie di un ufficiale in carriera a cui spettava mantenere la famiglia. Quando ho letto alcune parti del diario di mia nonna, ho scoperto una cosa che mi ha sorpreso molto, considerato che Beatriz era cresciuta in un ambiente cattolico piuttosto conservatore: alcuni anni prima di morire aveva aiutato alcune prostitute ad abortire. Questo dice tanto di lei, della sua umanità al di là della sua fede religiosa. Non solo questo mi ha avvicinato a lei ma mi ha ulteriormente invogliata a fare ricerche sulle donne in Portogallo in quegli anni. C’è un libro abbastanza noto che si chiama Novas Cartas Portuguesas (1971) scritto da tre autrici che alcuni considerano le prime fondatrici di un movimento femminista. Furono condannate ma non scontarono mai la pena perché subito dopo, nel 1973, in Portogallo scoppiò la rivoluzione. In un capitolo del libro descrivono ironicamente i compiti adatti alle donne e quelli prettamente maschili, una parte che ho usato nel mio film. È molto divertente il modo in cui le tre donne (due delle quali sono ancora vive) parlano di queste differenze in modo pungente e così audace, soprattutto se pensi che vivevano in provincia, sotto dittatura. Quindi sì, il fatto che Beatriz fosse una donna – è una donna – mi ha avvicinato a lei, al mio modo di essere una donna e a mia madre.

Il tuo film mi ha fatto pensare a Jeanne Dielman anche e soprattutto nelle scene in cui ritrai Beatriz alle prese con i lavori domestici. Anche qui ti soffermi principalmente sugli oggetti e sui gesti. Beatriz non era una femminista e quindi non ti sei spinta oltre le sue intenzioni e la sua personalità (anche se basata su una tua ricostruzione), ma riesci comunque a mettere in risalto alcuni elementi di conflitto, giocando con certi cliché o sul divario tra le generazioni.

 Si, il conflitto generazionale è un elemento forte e in qualche modo doloroso in Portogallo. I miei nonni hanno vissuto praticamente tutta la loro vita sotto dittatura, durante anni in cui vedevi che in altri paesi, come per esempio la Francia, le cose cambiavano freneticamente. Nel film ho mostrato alcune conversazioni accese tra mio padre e i suoi fratelli adolescenti che si scontrano con i genitori. Beatriz si sforzava di capirli ma c’era evidentemente un inconciliabile gap generazionale. In più c’è anche un meccanismo complesso e doloroso: rendersi conto a volte che i tuoi figli sono migliori di te, precisamente quel desiderio che ogni genitore ha quando cresce un figlio ma che poi, in qualche modo, può trasformarsi in paura e in impossibilità comunicativa. Ti trovi impreparato.

C’è un’altra donna nel tuo film che mi ha affascinato molto, anche per il modo in cui la fai entrare in scena, Zumira. Volevo chiederti di parlarmi un po’ di lei.

Fantastico! È la prima volta che qualcuno mi chiede di lei ed è un personaggio che amo. Zumira è l’unica che ho incontrato, perché ha lavorato tutta la vita per la mia famiglia. È arrivata in casa nostra quando era giovanissima, come spesso succedeva negli anni 50 in Portogallo: alcune ragazze si trasferivano a vivere e lavorare in casa di alcune famiglie, soprattutto quelle con molti figli, come la mia. Veniva da un paesino al Nord del Portogallo, ma rimase tutta la vita a Lisbona, e quando Beatriz morì, si spostò a casa di mia zia. La cosa incredibile e divertente di Zumira è quanto la sua personalità fosse in contrasto con la mia famiglia, religiosa e conservatrice. Lei era, al contrario, molto esuberante, fumava moltissimo, diceva un sacco di parolacce, che ho imparato da lei! Era fantastica, estremamente vitale. Si ubriacava, usciva, frequentava ragazzi diversi… ogni tanto litigava con mia nonna ma si volevano bene e io credo che per Beatriz Zumira rappresentasse anche un altro modo di essere donna. Mio padre, le mie zie e i miei zii sono cresciuti con lei e anche io ho molti ricordi, per esempio di quando mi terrorizzava facendomi vedere film horror! Nel mio film Zumira è interpretata dall’attuale compagna di mio padre ed è decisamente un personaggio che rompe la struttura rigida della mia famiglia.

Ah ci tenevi proprio a traumatizzare tuo padre! Che ruolo ha avuto tuo padre nella realizzazione del film?

(ride) Sì! Mio padre ha avuto un ruolo fondamentale, abbiamo discusso, anche animatamente! Quando gli ho fatto leggere la sceneggiatura ero abbastanza preoccupata della sua possibile reazione, ma non ha eliminato nulla e mi ha lasciato la libertà di raccontare la mia versione. È stato un ottimo compagno di avventura, un atto d’amore incredibile. È quasi morto assiderato nelle scene in acqua (ride)!

Ho fatto una proiezione privata del film per la mia famiglia. Ero molto emozionata e spaventata ma la cosa più bella è che quando hanno finito di vederlo hanno cominciato a parlare di Beatriz, a raccontare storie di famiglia. E ho pensato: “Ah adesso vengono fuori le storie che mi avete tenuto nascoste!”.

In molte delle scene i tuoi personaggi guardano in camera e questo suscita un certo straniamento, una certa inquietudine, anche perché non sembrano fissare direttamente il pubblico ma qualcosa che non riusciamo a vedere.

A parte alcune eccezioni, nella storia del cinema lo sguardo in camera non è molto utilizzato. Studiando storia dell’arte, mi sono appassionata ai miti e alle storie dei santi e, quando ho scoperto santa Lucia, pur non essendo affatto religiosa, sono rimasta molto colpita dalla leggenda. Il mio film è un continuo scambio di guardi, partendo dallo sguardo di mio nonno all’inizio del film. Volevo che gli spettatori potessero guardare negli occhi i miei personaggi e moltiplicare il gioco di sguardi. Non siamo nemmeno sicuri di cosa stiano guardando, forse Beatriz. In ogni caso è qualcosa che loro possono vedere ma noi no. E ancora una volta questo ha a che fare con il fatto che pur non essendo religiosa, la perdita delle persone care mi ha fatto riflettere su questa assenza. Anche se non credo in dio, credo in qualcosa e sono ne sono continuamente alla ricerca. Una dimensione spirituale che non ha a che fare con la religione, ma con qualcosa di impalpabile.

Una dimensione che cerchi di ricostruire con le tue immagini…

Il cinema in questo senso è un’arte feconda in cui trovo molta consolazione: ti permette di immaginare, mostrare e poi ritrovare quello che hai creato. Mi conforta rivedere queste immagini. Posso dire che non credo in dio, ma credo nel cinema!