È impossibile racchiudere Ultimo Tango a Parigi esclusivamente nelle sue strutture interne, trattandosi di un’opera consegnata in modo così preponderante alla Storia e alla Società, attraverso le quali il film di Bernardo Bertolucci vive costantemente di nuovi appigli di riflessione, nonostante il rogo continuo a cui è stato sottoposto negli ultimi 48 anni.

Una pellicola, dunque, non appartenente solo alla sua epoca, gli anni Settanta, ma anche a tutte le successive – future comprese – e la cui percezione andrà modificandosi in base ai valori e alle contraddizioni di queste ultime. Bertolucci, anticonformista come pochi altri, nel 1972 consegna una delle più struggenti, palpabili, pure storie d’amore tra un uomo e una donna mai narrate al cinema. Eros contro Thanatos, così come ne parlò Alberto Moravia all’uscita: «Nell’appartamento vuoto e opaco – e tuttavia sede privilegiata di un erotismo risplendente – abita Eros; tutto il resto del mondo è abbandonato al dominio di Thanatos. Dunque l’anonimità sessuale è la vita; l’identità sociale è la morte».[1]

In piena rivoluzione sessuale, l’erotismo (poetico, crudo) diviene nel film il motore attraverso il quale l’individuo riesce finalmente a demolire ogni maschera imposta dal sociale, insieme a tutti i costrutti politici ed economici che ne derivano. L’opera di Bertolucci rimane ancora oggi una delle più sincere condanne a uno dei più grandi valori istituiti dalla società occidentale, l’istituzione familiare, riuscendo ad andare oltre le rappresentazioni stereotipate di genere dell’epoca. “Santa famiglia, sacrario di buoni cittadini, dove i bambini sono torturati finché non dicono la prima bugia, dove la volontà è spezzata dalla repressione, la libertà è assassinata dall’egoismo”: l’eretico abbraccia, avvolge, senza alcun freno, l’erotico, in un messaggio così rivoluzionario che ancora oggi risuona utopia. La figura femminile viene liberata dalla sfera domestica e dai ruoli ai quali la cinematografia nazionale dominante l’aveva circoscritta, condannandola a essere concepita esclusivamente come madre, moglie, amante devota e denigrata o puttana.

Allora Bertolucci contro Dio, contro lo Stato, ma anche contro il Cinema. Il ribaltamento dei rapporti tra sessi delinea una cesura con l’intera tradizione del cinema italiano e in particolare con quella consueta assegnazione di significati dettata dallo sguardo oggettivante maschile. Ogni intimo gesto di Jeanne (una Maria Schneider poco più che adolescente della cui ottima performance la critica si è poco occupata)[2] è ribellione; il corpo viene liberato e riappropriato da colei che lo abita, in funzione del suo desiderio finalmente esplorato. Ogni tabù è esorcizzato, dalle scene di masturbazione, ai grugniti del maiale, fino alla presa di coscienza della propria superiorità e indipendenza alle suppliche di Paul/Marlon Brando. Jeanne decide, Jeanne spezza, Jeanne rimette insieme e il suo personaggio discioglie in un certo senso decenni di oppressione. Jeanne prende coscienza del proprio piacere e potere sensuale/sessuale, un potere autonomo che non necessita di controparti per essere completo.

Questa libertà corporale e sessuale è la stessa che rivendicava il movimento femminista nazionale degli anni Settanta su più fronti. La rappresentazione del femminile era il tema principale delle pagine di Effe, la più importante e provocatoria rivista femminista dell’epoca (1973-1983)[3], attenta in particolare alle politiche relative all’emancipazione del corpo nonché alla sua conseguente mercificazione mediatica: la liberazione aveva generato per le donne una nuova forma di oppressione, in un mercato disegnato in base ai bisogni, desideri e significati degli uomini. Rileggendone circa mezzo secolo dopo le parti, il fulcro del dibattito non sembra aver subito particolari modifiche, considerando tutt’al più che ci si trova di fronte a un evidente ampliamento del raggio dei media di riferimento – e quindi del problema – che non interessa più la sola industria dell’intrattenimento, ma l’uso che ne fa il singolo individuo. Ci si ritrova costretti a riesumare una questione così “vecchia”, mai risolta e mai così attuale, nella quale ci imbattiamo non solo ciclicamente ma quotidianamente: ne è massimo esempio il dilagare di un fenomeno come il revenge porn e più in generale il crescente accanimento verso le forme della sessualità e il sesso stesso, specialmente se femminile.

Silvia Federici va dritta al punto nel saggio Caccia alle streghe, Guerra alle donne: «La costruzione e la diffusione nei media di modelli di femminilità ipersessualizzati ha esasperato il problema, invitando apertamente all’aggressione sessuale e contribuendo a una cultura misogina nella quale le aspirazioni femminili all’autonomia vengono degradate e ridotte allo stato di mera provocazione sessuale».[4] Poco importa perciò se oggi Ultimo Tango a Parigi viene trasmesso in prima serata e in edizione integrale sulla Rai, se contemporaneamente continua ad ampliarsi il divario tra quella parte della società che riconosce la liberazione della sessualità, dell’identità non più eteronormativa, e quella che invece resta guidata da un’opinione sempre più moralista e sessista, inserita sui suoi beceri meccanismi.

La libertà del corpo non va di pari passo con l’evoluzione-involuzione sociale, all’interno di un Paese che, l’abbiamo ripetuto, continua ad essere sorvegliato da un apparato che riflette la propria mascolinità in tutti gli strati della collettività, dell’industria e dell’economia, fino a ripercuotersi nei nuclei privati e nelle micrologiche individuali, danneggiando tutti coloro che, indipendentemente da sesso e genere, non si identificano con i modelli di machismo proposti. Sono infatti gli stereotipi culturali, gli atteggiamenti sociali, la causa della violenza; così come lo sono la disparità economica e salariale, la mancanza di un disegno, di prospettive sociali e di una leadership femminile. Un settore “marginale” come quello dell’audiovisivo continua a vedere nella violenza di genere una delle sue principali prerogative (escludendo dall’esempio le produzioni al di fuori del circuito ufficiale). La sottorappresentazione femminile infatti raggiunge l’apice soprattutto nelle posizioni più autoriali:[5] l’88% dei film a finanziamento pubblico italiano sono infatti diretti da uomini e solo nel 12% dei casi si registra una regia femminile; il 90.8% dei film che arrivano alle sale cinematografiche è diretto da uomini, mentre meno del 10% sono quelli diretti da donne, a conferma di un sistema cinematografico nazionale che non è stato e difficilmente sarà neutrale e continuerà a proporre modelli funzionali ad un’unica visione, quella maschile, inserendosi anch’esso tra tutte quelle cause che contribuiscono allo sviluppo di un popolo non solo anti matriarcale, ma restio ad accogliere la diversità e il cambiamento.

Per queste ragioni risulta comunque impossibile trascurare il sottotesto nel quale si sono sviluppate alcune dinamiche del film di cui stiamo parlando. La prevaricazione che si svolge all’interno di Ultimo Tango a Parigi non è quella che si palesa davanti alla telecamera, nonostante ancora oggi ci sia una corrente della critica femminista anti-porno che sostiene il contrario ed esclude il fatto che dalla visione di una sodomizzazione si possa trarre piacere, ignorando le sfaccettature del desiderio femminile.[6] La violenza è prima di tutto abuso di potere psicologico (che ha poco a che fare con l’immediato soddisfacimento sessuale), lo stesso per il quale Bernardo Bertolucci e Marlon Brando si prendono la concessione di introdurre un elemento in una scena così delicata come “quella del burro” senza coinvolgere la parte interessata, femminile. È qui che emerge quel sopruso di tipo mentale – tanto inconsapevole quanto/poiché talmente radicato – privo di alibi, che enuncia il tipico atteggiamento di supremazia maschile (in cui un sesso dichiara l’altro) che vediamo ripercuotersi in ogni ambito della quotidianità e che coincide con uno dei fattori che continuano ad alimentare la cosiddetta rape culture. Quindi, smettiamola di pensare che la battaglia femminista e femminile sia solo accessoria.

Lo conferma, ancora, la cronaca: più la donna tenterà di emanciparsi, più ci sarà una controparte che tenterà di legarla. A partire dal suo corpo, dal suo naturale desiderio sessuale, costantemente colpevolizzato e sottoposto a vergogna. Ne è esempio il recente dilagare di politiche contrarie all’aborto e le difficoltà che la donna riscontra nell’accedere in sicurezza a un’interruzione di gravidanza (discorso che non si limita ai governi più conservatori guidati dai movimenti dell’estrema destra, ma che interessa anche il contesto nazionale). Ne sono  simbolo il linguaggio dei media e le narrazioni tossiche a cui siamo sottoposti, soprattutto per quei casi di violenza fisica che ritraggono la donna come istigatrice malvagia e l’uomo/branco vittima delle sue debolezze. Più il soggetto maschile è un personaggio pubblico, maggiormente si accentua il meccanismo.

Diviene pertanto facile comprendere la grandezza di Ultimo Tango a Parigi e perché parli ancora a gran voce della contemporaneità, sia per le logiche del sottotesto patriarcale in cui purtroppo è inserito, sia per le contraddizioni che suscita e continuerà a evocare, sulle quali ancora oggi continua a modificarsi la società.


[1] Alberto Moravia, La grande sfida tra Eros e Thanatos – estratto, L’Espresso, 14/12/2019, https://espresso.repubblica.it/visioni/2019/11/14/news/la-grande-sfidatra-eros-e-thanatos-1.340810

[2] Fabio Fulfaro, Ultimo tango a Parigi, Lo Specchio Scuro, 4/10/2019, https://specchioscuro.it/ultimo-tango-a-parigi/

[3] Archivio storico di Effe – mensile femminista autogestito, http://efferivistafemminista.it/

[4] Silvia Federici, Caccia alle streghe, guerra alle donne, Nero, 2020.

[5] Maura Misti, Dea, Donne e Audiovisivo, febbraio 2019, https://www.irpps.cnr.it/poges/donne-nelle-professioni-creative-il-caso-dellaudiovisivo-in-italia/

[6] Sofia Torre, Storia e critica del femminismo antiporno, 8/01/2019, Il Tascabile