Oscurità come privazione di luce. Su questa dicotomia ontologica tra luce e buio, bene e male, bianco e nero, si sviluppa Faith, l’ultimo lavoro di Valentina Pedicini, regista pugliese scomparsa tragicamente lo scorso novembre.

Il documentario segue la vita claustrale dei monaci guerrieri cristiani, i cosiddetti “Guerrieri della Luce”, uomini e donne che hanno scelto di dedicare la propria vita alle arti marziali e alle preghiere, guidati da un infallibile e rigidissimo “Maestro”. Un’esistenza che si svolge quasi completamente all’interno dell’edificio austero e minimale del convento, fatto di specchi, palestre, e dormitori. Nello sguardo della Pedicini, il convento sembra allora trasformarsi nella Fortezza Bastiani di Buzzati, in quel luogo esclusivo ed escluso dal resto del mondo, ai cui confini abitano elementi misteriosi e demoniaci, tanto che diventa assolutamente necessario preservare la purezza all’interno di questa bolla.

Anche dal punto di vista visivo, le immagini si impregnano dell’ermeticità del luogo; un alone nero circonda ogni inquadratura, la costringe dentro uno spazio ben delimitato e circoscritto, oltre i cui limiti non è possibile andare, quasi a restituire anche a noi spettatori un senso di claustrofobia. Ci ritroviamo intrappolati nelle inquadrature, con l’unica possibilità di osservare ciò che avviene all’interno, senza alcuna via di scampo. Così, allo stesso modo i monaci, proprio come avviene ne Il deserto dei Tartari, pur avendo la libertà di andare via divengono prigionieri del luogo.

Difatti, i principali protagonisti, o meglio protagoniste di Faith, sono dei Drogo al femminile, consapevoli dei sacrifici e delle rinunce, logorate dai dubbi, esasperate dagli allenamenti estenuanti, eppure apparentemente catatoniche – fedeli, appunto – ai loro gesti, alla quotidianità fatta di lacrime e sudore e al percorso che il “Maestro” indica loro. E proprio come Drogo, sarebbero libere di rinunciare a questo tipo di vita in ogni momento, ma non lo fanno; accettano le rinunce, le costrizioni e lo stile di vita austero, nel quale le differenze individuali si eliminano e si assoggettano alla vita comunale e monacale. Non c’è più traccia dell’individuo, il monaco diventa una sola cosa con il monastero, il guerriero una sola cosa con le corde, i pesi, e gli attrezzi.

Ma proprio qui sta la forza di Faith: nel riscoprire l’individuo in un ambiente olistico che vorrebbe invece annullarlo, nel ritrovare quei dubbi, quelle tentazioni che ci rendono umani e nel riportarle alla luce, catturando ogni sussulto dell’animo. Nel contrasto del bianco e nero, i ritratti delle protagoniste, in particolar modo di Laura, già vista nel precedente cortometraggio Pater Noster, si trasformano in bellissimi scorci di luce che risaltano i momenti di dubbio e di riflessione, irradiando i volti sullo sfondo buio. È soprattutto qui che le monache sembrano brillare di luce propria, nei momenti più difficili e più autentici del film, dove non contano gli allenamenti, dove la retorica del guerriero forte contro le tentazioni demoniache non regge il peso delle costrizioni e quello che importa è solo la donna celata oltre l’armatura di tessuto bianco, la verità che si configura come luce contro le tenebre che, come da tradizione biblica, sono luoghi di menzogne.

Lo sguardo sensibile e privo di qualsiasi giudizio della Pedicini è ciò che riesce a restituirci questi momenti, esaltati non solo dall’elemento visivo ma anche da quello sonoro, e in particolare dal respiro, che detta il ritmo dell’intero film. Il respiro affannoso degli allenamenti, quello rotto dalle lacrime, quello lento e calmo delle preghiere, quello meditativo e quello reso pesante dall’esasperazione e dalla stanchezza. Faith si configura dunque come un lavoro sensoriale, in cui si disvelano verità universali e vengono alla luce le nostre debolezze umane. Non è un caso che il film si apra a ritmo di musica techno ma si chiuda sulle dolci note di una ninna nanna, cantata da una delle protagoniste, che rivendica così il trionfo della tenerezza della madre sull’autorità del maestro. Una voce di speranza, di empatia nei confronti di un mondo chiuso, un microcosmo che, tramite le sue storture e le sue costrizioni, riesce comunque a restituire un senso comune di verità.

Rimpiangeremo uno sguardo come quello di Valentina Pedicini, capace di aggrapparsi a un flebile respiro per comunicare una vulnerabilità che prescinde da ogni luogo, ogni tempo e ogni spazio, ma che proprio in un ambiente di rinunce e costrizioni, dove tutto il superfluo è cancellato, emerge con più forza che altrove.