Space Dogs è un film di Elsa Kremser e Levin Peter, presentato nel 2019 in anteprima mondiale al Festival del Film di Locarno e ora in concorso a IsReal – Festival del Cinema del Reale di Nuoro. Un’opera sorprendente che riesce nel compito di minare dalle fondamenta lo sguardo antropocentrico per restituire potere all’occhio animale. I registi seguono un branco di cani randagi nei sobborghi di Mosca, conformandosi ai ritmi e alla dimensione “extra-morale” delle loro esistenze e intervallando il pedinamento con filmati di repertorio che testimoniamo degli esperimenti compiuti ai danni dei cani mandati in orbita durante la corsa allo spazio, tra i quali la tristemente nota Laika.


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Da dove nasce lo spunto per il film e come siete arrivati all’idea di Laika e dei cani moscoviti?

(EK) All’inizio volevamo dedicarci ai cani randagi. Volevamo cambiare la prospettiva, il punto di vista, era qualcosa che avevamo in mente a livello cinematografico. A parte questo, non avevamo molto altro. Non c’erano location specifiche, volevamo soltanto seguire questo gruppo di cani randagi e osservarlo da vicino, molto vicino. Solo successivamente ci siamo resi conto che c’erano cani là fuori nello spazio e cani qui, per le strade. E che c’era un fantasma che tornava indietro nel tempo. Da quel momento in poi è stato davvero affascinante scoprire Mosca attraverso lo sguardo di questi cani; anche perché noi, prima, non la conoscevamo, ed eravamo arrivati in città con lo scopo di fare un casting per trovare i nostri protagonisti. Abbiamo davvero girato in lungo e in largo, da nord a sud, da est e a ovest, e ne abbiamo incontrati molti.

Un casting inusuale trattandosi di un casting canino, anzi di cani randagi. Immagino sia stato complesso.

(PL) Molto difficile, ovviamente. Era la principale preoccupazione che avevamo quando abbiamo iniziato a girare. Non sapevamo che fine avrebbe fatto il branco scelto. Infatti siamo partiti per due settimane durante una pausa di lavorazione e, quando siamo tornati, se ne erano andati. È stato molto snervante. Alcuni ci dicevano per esempio:  “andate a nord, in quell’area industriale” e noi andavamo a nord e non c’erano cani. E allora un altro ci diceva: “No, no, dovete andare a sud, per le strade”. Ci sono state settimane in cui ci svegliavamo al mattino presto e andavamo su e giù per la città alla ricerca del branco, è stato molto frustrante. Ma volevamo davvero che questi cani fossero i protagonisti principali, gli “eroi”, quindi dovevano essere speciali. Lo spazio attorno a loro doveva essere molto particolare, diverso, e loro dovevano essere figure molto forti. Ci sono voluti mesi per trovarli. E poi abbiamo scoperto abbastanza presto che in realtà non facevano grandi giri in città: il loro territorio era piuttosto ristretto e tutti avevano un luogo in cui dormire, una tana, una sorta di casa. Questa scoperta ci ha aiutato moltissimo. Così, alla fine, le riprese ricominciavano nel luogo in cui andavano a dormire, li incontravamo lì e iniziavamo a girare. Siamo stati fortunati che il territorio del branco fosse così limitato.

Sempre a proposito dei cani: la questione di sguardo è centrale nel vostro lavoro. Nel film configurate uno sguardo non antropocentrico, teso a problematizzare la visione dello spettatore, il cui occhio viene portato ad altezza di animale. La scelta era presente già in principio d’opera o è emersa successivamente in relazione al comportamento dei cani?

(EK) Era un punto cruciale da molto prima di iniziare a girare, forse già da un anno prima. Perché nella storia del cinema, personalmente, non conosciamo film che siano andati davvero in quella direzione, dedicando così tanto spazio alla visione non umana. Ovviamente c’è sempre un punto di vista umano perché nel cinema c’è sempre lo sguardo umano, ma volevamo tentare di staccarci da ciò per vedere dalla prospettiva dei cani. Io sono cresciuta con molti cani intorno a me, perché i miei genitori erano allevatori. Volevo rendere al cinema questo sentimento molto infantile portandolo a un livello più alto e condividendo anche altre emozioni, per mezzo dell’osservazione. Perché ovviamente quello che fanno altri film, come quelli della Disney, è semplicemente prendere gli animali e affibbiargli un ruolo antropomorfo. Si crea qualcosa che sia facilmente comunicabile allo spettatore. Ma così si impone qualcosa, il loro aspetto, la loro apparenza è tradita. Quello che volevamo fare noi era creare uno spazio cinematografico aperto in cui si potesse guardare per molto tempo un cane, per un tempo davvero lungo, ma sempre in modo “cinematografico”, come se si guardasse un attore, e poi domandarsi cosa ci si è visto dentro, come esseri umani. Guardarli veramente, ecco: quello che volevamo fare era guardarli veramente!

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Vi era chiaro dall’inizio che avreste girato all’altezza degli occhi dei cani?

(PL) Non abbiamo mai avuto dubbi a riguardo. E la cosa interessante è che abbiamo portato il punto di vista di Elsa da bambina. Lei era alta come i cani da caccia che aveva in casa. Per me invece era un’esperienza del tutto nuova rispetto a quella avuta da Elsa. E quando eravamo lì a fare le nostre ricerche per me non era molto cinematografico, ma al contrario era abbastanza noioso il doversi abbassare con la camera all’altezza dei loro occhi. Era molto più stressante, più caotico. Con gli umani è molto diverso, sono più grandi, l’angolazione è molto diversa, ogni movimento è molto più preciso.

Infatti non cercate mai di antropomorfizzarli. Sono cani, non sono umani. Il loro comportamento è canino. All’inizio ci sono anche delle scene molto divertenti, come quella dell’allarme per esempio. Però alla fine le scene più potenti, quelle che restano più impresse, sono quelle dei cani randagi che “si comportano” da randagi.  Queste scene pongono lo spettatore stesso davanti all’impossibilità di antropomorfizzarli.

(EK) In fase di montaggio è stato uno dei nostri obiettivi. Inizialmente si può pensare: “Ah che teneri questi cani! Che bello guardarli! Fanno cose divertenti.” Poi iniziano a scontrarsi intorno alla macchina, per il pallone… Tutti vogliono cani carini, dolci, amichevoli. Li abbiamo messi lì perché volevamo mostrare che è sbagliato pensarli come “solo carini”, perché in realtà sono animali selvaggi. Basti pensare alla scena del gatto, è una visione molto crudele, spaventosa, scioccante, ma ovviamente per loro non lo è, stanno semplicemente seguendo il loro istinto anche se non  hanno bisogno di uccidere per sopravvivere. È stato molto strano quando è successo, e anche per noi che eravamo lì è stato abbastanza orribile. Perché è così difficile, vedere un cane uccidere un gatto rispetto a un leone uccidere una gazzella? Perché? Tutta la troupe ha reagito allo stesso modo, è stato duro. Ma ovviamente un cane dovrebbe essere controllato da un umano, non essere pericoloso e ovviamente un gatto dovrebbe essere dolce e al sicuro. Questo è il motivo per cui è così contraddittorio; ma questi animali sono selvaggi, vivono in strada, non hanno padroni, questa è la loro vita e l’atto di uccidere è qualcosa che semplicemente capita.

(PL) Siamo consapevoli del fatto che la scena dell’uccisione nel film sia un’esperienza diversa. Ovviamente abbiamo deciso di non stare troppo vicini, in quel momento, e il film lì mostra tutte le sue contraddizioni, perché non è facilmente categorizzabile. I movimenti di camera sono molto rudi ma allo stesso tempo c’è un’armonia. Credo davvero che quella scena contenga tutto quello che volevamo creare e, dall’altra parte, credo che sia anche ciò che l’ha resa così dura per le persone da vedere. Se fosse stato un unico piano da lontano, da 50 metri, senza movimenti di camera, parleremmo di un altro film.

È una scena cruciale nel film. Penso che sia il momento in cui dimostrate che il vostro sguardo non è giudicante. Forse alcuni non lo capiscono subito ma poi diventa molto evidente.

(PL) Sì, ovviamente tutto era fuori controllo in quel momento. Ci avete chiesto come abbiamo lavorato con i cani, come è stato possibile “controllarli” il più possibile. Ma in quel momento è chiaro che non c’era alcun controllo.

E voi avete deciso di essere parte di quell’atto, di partecipare.

Sì, perché è un momento importante per loro, questo è il punto!

Vedendo il vostro film è impossibile non pensare al testo scritto da John Berger sull’impossibilità di un mutuo riconoscimento tra lo sguardo dell’uomo e quello dell’animale…

(EK) Assolutamente! Era uno dei nostri testi di riferimento, così come il suo romanzo King: A Street Story, tutto raccontato dal punto di vista di un cane randagio.

È anche una sfida per il pubblico, capire le differenze tra lo sguardo umano e il loro comportamento. C’è anche la parte della scoperta dello Spazio, con un materiale d’archivio straordinario. Troviamo che ci sia una sorta di componente umana della scoperta. Spesso nella filmografia dedicata allo Spazio si parla di eroi e grandi successi, ma vedere questi cani può sembrare un paradosso: mostrate un lato della sofferenza spesso appannaggio unicamente degli esseri umani. Com’è stata la scoperta di questi materiali d’archivio e come hanno preso parte al film e lo hanno influenzato, nelle riprese e nella sua stessa forma?

(EK) In realtà il materiale d’archivio è arrivato molto dopo, al momento del montaggio. Quindi non abbiamo scoperto che tesoro avevamo tra le mani, se non molto tardi. Dopo molti anni di lavoro e dopo aver ottenuto queste riprese mai viste, le abbiamo guardate e ci sembravano di sci-fi, come la fantascienza di una volta. Erano belle riprese, ed era evidente che ci fosse un grande sforzo dietro per renderle esteticamente belle, anche se si trattava soltanto di documentazione scientifica, materiali realizzati in un contesto molto specifico. Ma la scoperta di quello che davvero accadeva a questi animali, il vederlo con i nostri occhi dopo 22 giorni che erano nella capsula spaziale, vederli lì, a guardare fuori dall’oblò, per tre settimane, è stato incredibile. Come la scena in cui devono re-imparare a camminare, che è stata fortissima. Riguardo questa combinazione di girato, avevamo sempre avuto centinaia di idee e riferimenti, approcci molto diversi, anche perché non sapevamo che materiale d’archivio avremmo avuto per le mani, non c’era nulla di pianificato. Avevamo un’idea generale e altre diverse, a corollario, alcune molto stupide e altre che ovviamente non sono nel film. Questo è stato importante perché sapevamo che avremmo dovuto legare le cose, ed è stato difficile creare questa connessione nel modo giusto. Volevamo farlo senza far percepire interruzioni nel tempo, dando la sensazione nel film che in qualche modo non fosse importante quando fosse accaduto qualcosa e che i livelli di tempo e racconto propri della Mosca contemporanea e dei materiali d’archivio fluissero l’uno nell’altro.

(PL) Esatto. Parlando di forma: i materiali d’archivio hanno dettato molto in sede di montaggio, semplicemente perché siamo riusciti a lavorare soltanto con parti molto brevi, ed è stato interessante perché era materiale molto costoso per l’epoca, in 16mm e con bellissime riprese fatte per pochissimi secondi. Questo è quello che ho trovato molto interessante nel nostro film, nella forma, nel modo di pensare il cinema, del fare film. C’è il nostro girato a Mosca, centinaia di ore di materiale, una raccolta di tonnellate di dati, riprese molto lunghe e poi, al contrario, questo archivio così limitato, un vero tesoro. Sapevamo che al montaggio avremmo avuto due livelli da organizzare, uno sarebbe stato quello notturno con i cani e l’altro il materiale d’archivio, e avevamo uno spazio limitato, il che è stato frustrante, perché non siamo sempre riusciti a fare quello che avremmo voluto.

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Il narratore è stato d’aiuto in questo senso. L’utilizzo della voice off vi è venuto in mente dopo?

(EK) Molto presto in realtà, l’idea di avere un narratore, così come lo stile di base del film, ci erano da subito molto chiari, doveva essere qualcosa tra la pazzia scientifica, un diario e una voce dallo spazio più profondo. Creare il testo è stato comunque un lavoro molto lungo, siamo stati fortunati perché avevamo a disposizione vari diari di scienziati che avevano lavorato con i cani e da questi abbiamo tratto parecchie folli e incredibili informazioni. Ci sarebbero libri interi da riempire con quelle storie! Abbiamo davvero lavorato per condensarle tutte, una frase viene eliminata per essere sostituita da un’altra e poi una parola, e così via fino alla fine, quando siamo arrivati a un testo davvero sintetico, essenziale.

Parliamo del suono e della musica, che sono molto importanti. Visto che gli animali non parlano, li capiamo anche attraverso le voci, i suoni. Come avete lavorato alla composizione sonora?

(PL) Sapevamo fin dall’inizio che nel film non ci sarebbe stato linguaggio né dialoghi, quindi ogni suono della città era molto importante e i cani, anche nel rumore della città, riescono a sentire piccoli suoni provenire da ogni parte. Volevamo lavorare su questo. I materiali d’archivio erano invece silenziosi e questa è stata un’altra sfida con il sound designer, un lavoro di più di due anni per creare livelli diversi.

(EK) Poi ovviamente volevamo creare qualcosa che si collegasse ai film di fantascienza, perché ne abbiamo guardati diversi nel periodo di realizzazione del film! In qualche modo abbiamo cercato di ricreare il suono e l’atmosfera della navicella spaziale che vediamo nelle immagini di archivio. Abbiamo cercato di portare l’atmosfera degli archivi nel mood della colonna sonora. Anche se il tema musicale viene fuori dalla combinazione tra i suoni di Mosca, i suoni degli archivi e i suoni dello Spazio, Jonathan (Schorr) e Simon (Peter) hanno lavorato tantissimo sulle singole composizioni. Abbiamo iniziato a confrontarci molto presto con loro, dell’idea che avessimo bisogno di un tema per Laika e per i fantasmi, e ci sono state tante conversazioni su temi metafisici. Così sono arrivati a questa musica straordinaria.

(PL) Credo che la parte più difficile per John, il musicista, fosse che noi gli avevamo detto fin dall’inizio che si sarebbe dovuto trattare di musica classica ma in un’accezione science fiction. Che sarebbe dovuta essere analogica ma che non avremmo voluto un’orchestra. Lui ha lavorato con questo incredibile strumento che è il Roli Seaboard che permette sonorità incredibili e ha dato il risultato che volevamo.

(EK) E poi ha aggiunto veri violini e strumenti perché non voleva creare una musica artificiale, ma qualcosa di futuristico in chiave retrò.


Intervista realizzata da Alessandro Del Re e Alessandro Stellino il 10 agosto 2019 durante il Festival del Film di Locarno. Trascrizione e traduzione a cura di Giulia Briccardi.