“…No, niente rimpianti
Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare
Come dei gabbiani ipotetici
E ora?
Anche ora ci si come sente in due
Da una parte l’uomo inserito
Che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana
E dall’altra il gabbiano, senza più neanche l’intenzione del volo
Perché ormai il sogno si è rattrappito
Due miserie in un corpo solo.”
Qualcuno era comunista, Giorgio Gaber

Il tutto è falso

Come il Mito e la Storia si siano fusi vicendevolmente nel corso del Novecento, negandosi e ricongiungendosi in un’unica matassa di illeggibilità, è cosa tristemente nota e allo stesso tempo tutt’ora in corso, perché la fine della progressività storica non è altro che un costante ripetersi delle sue precedenti dinamiche, attuate in un gesto di violenza continuo che distrugge tutto per poi ricostruirlo con un ordine solo leggermente diverso, e questo labirinto di senso ha trovato nell’annientamento del confine tra realtà e finzione l’elemento definitivo che gli ha permesso di dilagare in tutta la sua spietata ambiguità, sconfiggendo il senso critico e osservando ogni cosa da uno scranno di divertito compiacimento, lo stesso scranno da cui si innalza l’ardua sfida di DAU, di Ilya Khrzhanovskiy, che oltre ad aver attuato uno sforzo produttivo di proporzioni mostruose nel rimettere in scena un intero istituto di ricerca Sovietico, ha tentato e tenta, in ogni sua diramazione, di ripercorrere l’abominio che soggiace alla mistura del vero con il falso, della vita con la sua riproduzione, avendo accolto  spesso nelle proprie maglie attori non professionisti (quasi come se fosse un’entità a sé stante dal suo creatore) che hanno interpretato le stesse mansioni da loro ricoperte in passato nella vita vera (agenti del KGB impersonano agenti del KGB, scienziati impersonano scienziati, artisti impersonano artisti), rinchiusi in questo immenso spazio costruito in Ucraina per tre anni, trascorsi i quali nessuno spettatore che abbia fruito di DAU in ogni sua forma, che sia essa un’installazione artistica o un film, è mai riuscito a proteggersi dall’intensità emotiva esondante che ne è scaturita, sebbene avvisato che in questo caso quello che stava accadendo (non solo che era accaduto) non era esclusivamente un reale funzionalmente riprodotto, ma era anche compiuto per la maggior parte, appunto, dai medesimi protagonisti che lo avevano vissuto più di quarant’anni fa, nel teatro dei crimini dell’Unione Sovietica, conducendo così da subito il senso di questo meditare doloroso sull’anfratto di disillusione che è stato il tradimento dell’ideale Socialista, quella deviazione dalla fine ingloriosa dell’incedere novecentesco che si è dimostrata solo come un altro affluente che ci avrebbe condotto alla catastrofe post moderna.

Il falso è tutto

Di questa disillusione il capitolo DAU: Natasha è forse il re-enactment artistico più chiaro e lucido degli ultimi anni, che riesce, raccontando la storia dei soprusi subiti da una delle cameriere impiegate in questo istituto di ricerca, a enucleare tutto ciò che di più inevitabilmente chiaro esiste nella progressiva messa a conoscenza di questa confluenza tra cinema e vita (nel duello già perso dal Mito e già vinto dalla Storia) e a far sì che il pubblico ancora una volta non possa distogliere lo sguardo durante le scene più esplicite, lasciando che tutto l’affronto di DAU dopo la visione si apra attraverso la magniloquenza, forse volutamente sprecata, della sua realizzazione (in quanti poi conoscono lo sforzo produttivo su cui è stata costruita questa opera straordinaria? Non saprei di preciso, ma conosco il numero di sale in cui è stato distribuito in Italia: 8), realizzazione la cui verità cinematografica risiede in quell’atto quasi pornografico tipico del mettere un confine tra il reale e la sua estensione platonica, fino a far risultare la brutalità un gesto di liberazione proveniente dall’abbattimento di questo confine, all’interno di un Presente in cui quel che resta del cinema viene percepito come la messa in scena di un mondo ideale e non del mondo com’è o è stato; ma, lo abbiamo già scritto, ieri e oggi sono, in questi ultimi decenni, concetti piuttosto evanescenti.