Avevano veramente, questi risvegli sempre inattesi, qualcosa della presenza di un altro, la presenza di un amico o quella, ancor muta, di chi lo sarà presto e tacendo ci cammina accanto e ci guarda. Cose non dette trasparivano in fondo all’istante come un oggetto noto in fondo all’acqua di una vasca, e sarebbe bastato quel lieve coraggio di tuffare la mano, per toccare la lontana inafferrabile parvenza. Ciò accadeva specialmente al mutare delle stagioni, quando l’aria è tutta corsa da brividi di passato che, freschi e inattesi, ci riportano antiche certezze. Quest’antico, questi brividi, mi davano un incremento di vita, come un senso che sotto il labile istante s’accumulasse un tesoro già mio, che dovevo soltanto riconoscere.

(Cesare Pavese, Feria d’agosto)

Ventiduesimo giorno. Tre amici ballano al ritmo del rock di Frankie Valli. Un bacio fra due di loro ci svela che sta sbocciando un amore, mentre il terzo della compagnia, osservando gli altri, appare amareggiato. Al sorgere del sole, la coppia prova a consolarlo, per finire a incantarsi davanti alle farfalle in giardino. Ventunesimo giorno. Alcune mele cotogne appoggiate su un muretto marciscono. Ventesimo giorno. I ragazzi sono impegnati a costruire una struttura in legno, di cui ignoriamo la funzione. Diciannovesimo giorno…

Procedono così, scandite da un’apparentemente tipica quiete estiva, le giornate di Crista, Carloto e João in una tenuta di campagna. Finché una mattina, durante la colazione, fanno capolino dall’altra parte dell’obbiettivo i componenti della troupe del film. Dopo questo primo svelamento, si ribalta la percezione di ogni immagine che avevamo di fronte. I nomi degli attori sono gli stessi di presunti personaggi: ma questi personaggi rispondono davvero a un disegno registico? E quale scrittura dovrebbe presupporre le azioni delle loro scene?

Costruito su una giocosa poetica che ammicca alla forma rohmeriana, The Tsugua Diaries si presenta come una sofisticata riflessione sulla percezione del tempo. Poiché ogni giornata a cui assistiamo è cronologicamente successiva a quella che stiamo per vedere (per intenderci: prima una mela giace nell’erba, nella giornata successiva cade dall’albero), i registi scardinano la consueta formula narrativa in progressione temporale e ci pongono di fronte alla contemplazione di atti compiuti senza un’apparente ragione. Non si tratta di un gioco di specchi, ma di un meccanismo che svela la frammentarietà della nostra impressione delle cose, del modo in cui le osserviamo e le pensiamo, del dispiegarsi delle infinite possibilità che ogni evento ci offre, dalla sua superficie alla sua inattesa profondità.

Il cinema di Maureen Fazendeiro e Miguel Gomes si muove con grazia su diversi piani percettivi: da quello più concreto legata alla materialità di un evento o di un oggetto, ora in chiave contemplativa ora con fantasiosi innesti volutamente ironici o romantici, passando poi all’epifania di una nuova dimensione dell’immagine, improvvisamente concettuale. Ogni forma è nutrita da una stratificata concezione del presente, e anche quando ci abbandoniamo al puro godimento di un gesto casuale ci invita a ripensare la condizione del “caso”. Il cinema dei due autori sembra costruito attorno ad una riflessione filosofica per cui ogni elemento della vita è unico, ma allo stesso tempo fondamentale per il funzionamento di una collettività, messa in scena sia nella forma della vita che in quella della narrazione cinematografica, senza che si possano alzare barriere fra questi due mondi. Secondo una visione umanistica dove sentimenti, oggetti, uomini e animali convivono all’interno di un equilibrio solido e impercettibile, la poetica del film si dispiega nella cieca fiducia verso la vita, tanto profonda e consolidata (come la relazione di coppia che lega i registi) che la realtà stessa mostra il suo fianco per farsi docilmente piegare.

Il metodo messo in atto nel lavoro della troupe diventa, in questo senso, un rimedio balsamico al tempo occluso dalla pandemia, all’eterno presente che tutti noi abbiamo patito e dentro cui si inscrivono anche le tre settimane circa di questo film nel film. The Tsugua Diaries, realizzato durante la seconda quarantena in Portogallo, non perde tempo in facili polemiche, ma è la risposta più gioiosa che il cinema poteva dare a un momento di crisi tanto epocale, ponendosi come atto di liberazione creativa, sperimentazione, come laboratorio dell’immaginario e strumento fondamentale per le relazioni e la vita stessa.

Proprio come dichiara il titolo, il film non è soltanto una documentazione diaristica dell’estate a cui stiamo assistendo (questa forma dell’appunto deve molto alla scrittura di Pavese, citato anche in uno dei tanti episodi), ma un campionario degli elementi stilistici già messi in atto nelle precedenti pellicole degli autori: ritroviamo il documentario intimista di Christmast Inventory, il triangolo amoroso di Meanwhile (guarda caso, un altro titolo che riflette sul senso del tempo), lo scambio giocoso tra fiction e documentario di Arabian Nights, le luci scenografiche di Canticle of All Creatures, la “bella estate” raccontata in Our Beloved Months of August, il ricordo celato nel mistero delle cose di Motu Maeva. Più che un semplice film, nella sua sconcertante modestia, è l’invito a riguardare l’intera opera di due fra i più meravigliosi autori del cinema di oggi.