Siamo la terra in cui nasciamo, nonostante tutto. Questa frase racchiude tutto il senso di Semret, lungometraggio d’esordio di Caterina Mona presentato al 75° Locarno Film Festival. Casa nostra ci reclama, non importa quanto lontano andremo, quanto diversi diventeremo, quanto riusciremo a dimenticarci delle nostre radici.

Nel caso di Semret, madre single emigrata a Zurigo con la figlia dall’Eritrea, queste radici invece di slanciare verso l’alto, trascinano verso il basso, nello sprofondo, nel sommerso e nel rimosso del proprio passato, un passato che non può essere cancellato, nonostante tutti gli sforzi di diniego della protagonista.

La memoria in questo film assume una dimensione estremamente singolare, quasi capovolta, diventa un’ineludibile presenza, né positiva né negativa, che prima o poi viene a cercarci e a trascinarci fuori dall’oblio. In questo senso il ricordo traumatico di Semret non le permette di tornare al suo retaggio, alle tradizioni del suo popolo, ed ecco che quindi il discorso si capovolge, e quello stesso retaggio viene recuperato dalla figlia, che nella raffigurazione classica della migrante di seconda generazione dovrebbe essere ormai lontana dalle sue origini, ma che proprio perché queste origini vengono negate (per trauma) da quella madre che avrebbe dovuto confermarle, diventa inevitabilmente motore marciante di un recupero della propria identità di donne eritree, rimodellando di conseguenza le quotidianità, le amicizie e gli amori.

Questo è in grado di fare la violenza del colonialismo a chi lo ha subito in prima persona, trasformare il proprio paese in qualcosa di cui scordarsi e trasfigurare i suoi abitanti in individui disfunzionali, che non riescono ad affrontare il proprio passato, e che cancellano così le identità singole e collettive di tradizioni spesso millenarie. Sembra che in questo senso il passato e il presente di Semret non possano coesistere durante tutta la durata di questa storia: dall’inizio del film diventa sempre più evidente che la vita discreta ritagliata dalla protagonista in Svizzera si scardina tanto quanto quella ritornata dall’Africa si riaffaccia.

È da qui che il film decide di lasciarci con un finale fortemente sospeso nell’indeterminatezza, scegliendo un arco drammaturgico per niente consolatorio, ma che preferisce sottolineare la presenza di un problema non ancora risolto, che porta molti migranti a non riuscire a integrarsi mai veramente, a causa di un paese che accoglie diffidente ed egoista, trinceato dietro i paradossi della burocrazia, e di un paese che lascia distrutto dal potere di un imperialismo ancora estremamente vivido, che chiama e allo stesso tempo sospinge a fuggire, a costo della propria vita.

Semret è un viaggio dell’eroina capovolto, in cui non vediamo con chiarezza né il punto di partenza né tanto meno quello di arrivo, affogando in un mare di malinconia tra due terre ostili, che a volte ci culla e altre ci butta nella corrente della Storia del mondo, rendendo la nostra di storia sfuocata sul fondo dei ricordi.

Ma siamo la terra in cui nasciamo, nonostante tutto.