Uno dei rivoli in cui si è dispersa l’eredità pasoliniana è quello che porta ad inaspettati, paradossali estremi l’interpenetrazione di stile e impegno politico. È la via che ha percorso Bertolucci: chi nasce con lo stigma della borghesia può solo dissolverlo identificandosi in pieno con la nevrosi borghese. Pereat mundus dunque, perché l’unica cosa che esiste per il borghese terminale è lo stile, l’individualismo giunto al limite della propria autoreferenzialità: non c’è conflitto sociale che non sia un riflesso dell’unico, universale conflitto, che è quello che oppone il soggetto a se stesso (per gli amici: Edipo) e che trova espressione nell’estetica della nevrosi. Partito da film che Pasolini stesso riconobbe come manifestazioni della nevrosi borghese (Partner, La strategia del ragno, Il conformista), dopo la controrivoluzione succeduta alla guerra fredda Bertolucci si scoprì al centro di un mondo da cui il borghese nevrotico si sentiva scisso, e che ora invece cominciava a tributargli Oscar su Oscar. La nevrosi insomma si era confermata non ad appannaggio del soggetto, ma iscritta direttamente e in prima battuta nella realtà e nella Storia.

Dopo essersi cimentato con Pasolini nell’omonimo film biografico del 2014, Abel Ferrara si confronta con questa eredità. Ma il freudo-marxismo bertolucciano non gli basta; e non è un caso, del resto, se il suo percorso è opposto a quello del parmense (da quel centro del mondo che è Hollywood alla periferia di tutto che è diventata l’Italia). Né è un caso che il suo approccio alla psicanalisi debba tanto a quello, ferrarianamente raffazzonato e tutto tranne che ortodosso, di quel Christ Zois che lo ha affiancato varie volte da Blackout (1997) in poi.

Anche Padre Pio è un pereat mundus. È un film scisso in due parti che si alternano: una incentrata sul frate, l’altra sui conflitti sociali di una poverissima San Giovanni Rotondo che esce dalla prima guerra mondiale con la speranza del socialismo, eventualmente anche in una sua versione riformista che le prime elezioni libere sembrano poter garantire. Tra le due parti, non c’è comunicazione. Padre Pio delira per conto suo, somatizza per conto suo, senza altro modo di interfacciarsi col mondo che attraverso il rituale (unico spazio concesso alla nevrosi ossessiva, al fine di esorcizzarla ed annullarla), incluso quello della confessione. Nella parte mondana, la sceneggiatura dissemina esche che promettono qualche forma di redenzione in prospettiva: tutte poi rigorosamente frustrate, dal marito che forse è sopravvissuto alla guerra o forse no, agli sforzi organizzati di emancipazione di classe.

La salvezza non è di questo mondo. Ma se è per questo, neanche il soggetto è di questo mondo. Ergo, la salvezza è solo nel soggetto. Ovvero, nell’altra metà del film, quella non mondana, incentrata sul prelato-star. Ma qui non siamo più dalle parti di Bertolucci. Il soggetto non è più quello della nevrosi borghese. È invece un soggetto per il quale la nevrosi, e in particolare la nevrosi isterica (quella ossessiva venendo cancellata dal rituale), è un mezzo, e non un fine. Il fine è quello di travalicare la nevrosi per approdare alla psicosi. E la psicosi è l’unica salvezza, perché è fuga da un mondo in cui non c’è salvezza, e perché nella psicosi la legge viene rifiutata, permettendo così al corpo e al linguaggio di sovrapporsi senza la mediazione gerarchica della legge. Questo la psicanalisi non può farlo: troppo attaccata al linguaggio, e dunque alla legge, essa può pensare a nevrosi e psicosi solo in termini sostanzialmente distinti. Solo la religione offre al soggetto un piano unico dove nevrosi e psicosi si compenetrano, e con ciò la possibilità di passare dalla prima alla seconda. Solo la religione, insomma, e segnatamente la religione cristiana, offre la possibilità di abbracciare la legge solo per poi annullarla. Di passare dalla repressione nevrotica, con corpo e linguaggio scissi e popolati da sintomi, e dal dubbio circa la legge che ha comandato la repressione, a una psicosi dominata dalla certezza dell’allucinazione, dove la legge è nulla e l’immagine è tutto, e al suo cospetto linguaggio e corpo si offrono disarticolati, in piena fuga da un mondo insalvabile perché posseduti totalmente da qualcosa rispetto a cui la nevrosi si tiene solo con un piede dentro e uno fuori.

Ma se da un lato il film, intrecciandosi a doppia elica, ci mostra come l’unica salvezza stia in questo percorso tutto interno al soggetto dalla nevrosi alla psicosi (per gli amici: la fede), dall’altro ha anche modo di ribadire che ciò che distingue la religione dalla psicanalisi è che solo per la prima, l’unica a stare al contempo dentro e fuori la legge, l’impasto originario tra nevrosi e psicosi rimane inestricabile. Approdare alla salvezza della psicosi non vuol dire lasciare la nevrosi dietro le spalle. Vuol dire solo cambiare faccia di una medaglia che rimane la stessa, come lo stesso ricamo a cui lavorava la madre di Pio, e che lui bambino guardava prima da sotto e poi da davanti, aveva un retro “nevrotico” ingarbugliato e disordinato, e un fronte “psicotico” dove il disegno dell’immagine era pulitissimo, armonico e privo di sbavature. Per questo, al centro del film, e in tutti sensi, c’è la straordinaria scena con l’auto da fé di Asia Argento, ed accessoriamente anche del personaggio da lei incarnato (un “uomo alto” che confessa l’attrazione sessuale per la propria figlia adolescente). All’estremo opposto dello spettro del #MeToo in cui si trova, scomodamente, lo stesso Shia LaBoeuf, la Argento e il suo “uomo alto” accettano di venire posseduti psicoticamente da un personaggio rispetto al quale nessuna nevrosi si frappone. Non c’è pentimento, non c’è repressione, non c’è conflitto interno. E per questo Padre Pio manda entrambi al diavolo – o peggio: a Dio.

Rifiutando la nevrosi ma non necessariamente la psicosi, Asia Argento e il suo “uomo alto” sono l’eccezione che conferma la regola del principio strutturale fondante del film: la superficie continua tra nevrosi e psicosi, pendente verso la seconda, che solo la religione può offrire. Non è solo la superlativa performance di Shia LaBoeuf a testimoniare di questa continuità, ma anche lo stile stesso della parte “mondana”. Man mano che i conflitti si succedono, senza mai trovare risoluzione, la regia sembra crederci, usando la versatilità del digitale per incardinarli in una drammaturgia visuale pressoché “sovietica”. Allo stesso tempo, però, la cinepresa sembra pressoché letteralmente sfuggire di mano, e lavorare ai fianchi quella drammaturgia per smarginarla, scivolando di lato rispetto a essa – fino a un’ultima scena in cui la cinepresa diventa totalmente indipendente rispetto all’azione, inverando in tal modo quanto annunciato in una scena precedente, quando Padre Pio confessa di voler fuggire dal mondo nello stesso momento in cui la cinepresa si concede uno dei suoi svolazzi aerei più arditi. Ecco dunque che, paradossalmente, ritorna la nevrosi bertoluccian-pasoliniana – ma non prima di aver fatto tutto il giro, ovvero di essere passati per la psicosi.

Lo psicotico è posseduto da un’entità senza limiti né confini perché estranea alla legge: per lui, non esiste alcuna scissione, né alcun fuori. Ma per chi si pone nei suoi confronti dall’esterno, il sospetto di scissione rimane, come di quella legge di cui nello psicotico si sospetta, dal di fuori, l’assenza. “Siamo divisi”, mormora disilluso il socialista. E ha ragione, visto che, come si osserva solo pochi secondi dopo, persino le scarpe vengono divise per classi sociali, figuriamoci se non finiscono per essere divisi i socialisti tra loro. Ma solo la religione, più ancora della psicanalisi, può rivelare ciò di cui la critica sociale ha il presentimento senza poterlo formulare compiutamente, ovvero che la divisione è oggettivamente inscritta nel mondo; e la religione lo può proprio passando attraverso l’assenza di divisioni di cui si fa esperienza nella fuga psicotica. La quale si ri-socializza e ri-politicizza rendendosi pubblica, aprendo a una constatazione condivisa della divisione inscritta strutturalmente nella realtà come pure a un’ugualmente condivisa, utopica negazione psicotica di essa. Ma per ri-socializzarsi e ri-politicizzarsi (ciò che, eventualmente, potrebbe essere associato con la parabola biografica di Padre Pio successiva a quella coperta dal film), la fuga psicotica che è la fede deve passare attraverso una solitudine così profonda da confinare, come viene ammonito lo stesso Pio in una delle prime scene, con il peccato. A mille miglia dal freudo-marxismo bertolucciano, Ferrara crede per davvero, psicoticamente, di star filmando un film sovietico, lasciandosi però saggiamente scivolare di lato, pervenendo così a un film massimamente diviso: tra biancori disordinati che sciattamente penetrano dalle finestre e primi piani strepitosi (tra i meglio illuminati del cinema recente); tra professionalismo recitativo che si spinge fino ai propri limiti e imbarazzanti quanto persistenti sospetti di filodrammatica; e così via. Il fronte e il retro del ricamo non cessano di rimandarsi l’un l’altro.

A un certo punto, uno sciancato sobillato da Padre Pio a fare fino in fondo quello che si sente, si alza e cammina miracolosamente, con un incedere scomposto e disarticolato da capo a piedi. Il montaggio lo associa a un bracciante in preda a convulsioni, schiacciato dalla fatica di un lavoro che di lì a poco lo ucciderà. Tra il corpo dell’uno e il corpo dell’altro, tra la salvezza e la dannazione, la differenza non si vede. La vede solo chi vede, psicoticamente (ovvero: attraverso la fede), quello che non c’è.