Probabilmente, il film più rappresentativo di questa edizione 2023 della Tiger Competition (il concorso principale dell’International Film Festival Rotterdam, riservato ad opere prime e seconde) è 100 årstider dello svedese Giovanni Bucchieri. Non il migliore, né certamente il peggiore (e anzi molto probabilmente uno dei migliori) dei titoli presentati, 100 årstider esemplifica con particolare evidenza due tendenze riscontrabili nella maggior parte dei film selezionati: un certo approccio verso il presente e un certo interesse verso le potenzialità variamente archeologiche rese possibili dal gioco, più o meno intellettualmente consapevole, con formati e supporti eterodossi.

Per quanto riguarda la prima tendenza, il festival non è affatto rifuggito da un rispecchiamento sanamente “old school” dell’esistente, anche quando questo ha comportato il confronto con tematiche tanto alla moda quanto teoricamente lontane dai codici più tradizionalmente cinematografici. Se la “nuova normalità” vede nella fragilità dell’ego una sorta di costante universale di cui il COVID è stato rivelatore e catalizzatore, e la nevrosi individuale diventare la regola e non più l’eccezione, è naturale che la liquidità del digitale e i mezzi ad essa più intrinsecamente connaturati (le epopee Marvel, le serie TV e quant’altro) vengano ritenuti i più adatti a dar conto di questo mondo sempre più strutturalmente precario. Buona parte della Tiger Competition, tuttavia, sembra essere stata assemblata con il proposito di dimostrare che il cinema non è affatto da meno, e può ancora benissimo prestare le sue forme più tipiche per ritrarre i contorni distintivi del nostro presente, compreso il suo ampiamente post-cinematografico stato di perpetua crisi. Anche e soprattutto il cinema, in altre parole, può indagare tali tratti, conducendoli sperimentalmente alle loro estreme conseguenze: prendendoli insomma sul serio fino in fondo per conoscerli meglio, anche mobilitando un apparato stilistico ad essi confacente.

Gagaland, Teng Yuhan

L’intrigante trashata cinese Gagaland (del ventitreenne Teng Yuhan) si immerge fino al collo nel narcisismo assurto a forma-di-vita di un’epoca come la nostra in cui le autorappresentazioni alla TikTok sono indistinguibili dalla vita quotidiana reale, ma ne riemerge con un senso del cinema di grande freschezza grazie a fondamentali parecchio solidi: ritmo travolgente, montaggio spericolato, scarti di tono, moduli narrativi intelligentemente mutuati dal cinema bellico, dinamismo spietato e saggiamente ottenuto esasperando senza posa le conflittualità visuali. Letzter Abend di Lukas Nathrath, nel fare affiorare vizi e debolezze nascoste dei giovani (e meno giovani) adulti tedeschi (e austriaci), evita in scioltezza le paludi mucciniane da un lato appoggiandosi ad un impianto di riconoscibilissimo, rodatissimo stampo teatrale, e dall’altro sottoponendo il risultante godibilissimo, divertentissimo dramma da camera (tutto in una sola serata: una cena tra amici nei giorni del COVID prima che la coppia ospitante lasci Hanover per Berlino) a un raffinato aggiornamento: non c’è più traccia di drammaturgia tradizionale, sostituita da un incessante, ineluttabilmente ansiogeno incastro di innumerevoli piccole catastrofi. Per materializzare l’orizzontale, paralizzante stagnazione economica che ha attanagliato il Libano in particolare ma che ormai è potenzialmente dietro l’angolo in qualunque punto del globo e soffia di continuo sul collo di tutti, Karim Kassem (Thiiird) ha scelto un sagace sistema di contrasti: tra una temporalità sospesa e accelerazioni improvvise, tra un distaccato bianco e nero ai limiti dell’estetismo e un genuino attaccamento per i personaggi ottenuto a forza di ricorsività su luoghi (un garage ben al di là dell’economia informale e ormai al limite dell’informal settlement), corpi sottoproletari e facce di azzeccata fotogenia. Peccato per un’assai poco convincente fuga in avanti verso le soglie del sovrannaturale nell’ultima parte, dove l’equilibrio tra i contrasti incrociati finisce per rompersi.

100 årstider, Giovanni Bucchieri

Nel già citato 100 årstider, Giovanni Bucchieri si mette a nudo per esplorare una patologia che ormai non è più solo personale, ma di massa: la bipolarità. Bucchieri imbastisce un intenso gioco di specchi tra un alter ego (omonimo e interpretato da lui stesso nel proprio minuscolo appartamento) depresso, irrisolto e schiacciato da un passato (da ex ballerino al teatro nazionale svedese) notevolmente più luminoso, e un’ex amante che, grazie a un carattere coriaceo diametralmente opposto al suo, “ce l’ha fatta” professionalmente e forse, almeno in parte, anche umanamente. Senza nessun narcisismo né compiacimento morboso, ma con una “scandinava” propensione a far soffermare la cinepresa sulle fisionomie fino a cavarne fuori i segreti dell’anima (e ottenendo altresì, in questo modo, di alleggerire ritmicamente l’altrimenti troppo cerebrale teatrino mentale in cui il film fondamentalmente consiste), Bucchieri firma un musical esso stesso bipolare: gli assi portanti del musical ci sono tutti (le parabole incrociate maschile e femminile, discendente ed ascendente; lo spettacolo-nello-spettacolo in corso di realizzazione; la comunità come utopia…), ma è un musical che rifiuta di essere tale, e che di conseguenza si apre a un caleidoscopio di diversi generi, dal melò scespiriano al dramma in costume (in francese!) alla fantascienza e oltre.

I generi classici sono ancora vivi e vegeti, e non c’è alcuna differenza tra cinema d’autore e cinema popolare di genere: idee, queste, rivendicate esplicitamente dalla nuova (e brillantissima) gestione dell’IFFR fin dal suo insediamento (la “pandemica” edizione 2021 fu la prima realizzata dal nuovo team, rimescolatosi poi in parte negli anni successivi). Lo si vede bene, in questa edizione 2023, meno forse nel concorso principale che nelle altre sezioni, in alcuni dei pezzi migliori dell’intero festival. John Swab assimila alla perfezione il magistero di Sam Peckinpah per dare vita ad un thriller (Little Dixie) che si inabissa nell’ambiguità tra Bene e Male per venirne poi fuori con impeccabile, immacolata nitidezza stilistica, logica e morale. Gagliarda epica anticoloniale di tre ore (che passano in un baleno), Kira & El Gin di Marwad Hamed stiracchia anche un po’ troppo l’efficacissimamente muscolare prima metà (stile diretto e vigoroso, ricostruzione audacemente “leccata” del Cairo anni Venti, scene d’azione di rara forza dove una cinepresa pur mobile e versatile occupa sempre, sistematicamente, la più incisiva delle angolazioni), ma nella seconda si fa veramente entusiasmante, diventando tanto più potente quanto più si apre all’umana debolezza, indovinando una politicamente ineccepibile quadratura del cerchio tra rivendicazione dell’identità collettiva e inclusione dell’eterogeneo, e dando una risposta davvero geniale all’eterna vexata quaestio del cinema egiziano (come infilare un subplot melodrammatico-amoroso integrandolo al resto?).

Munnel, Visakesa Chandrasekaram

Tornando alla Tiger Competition e al suo lato “rispecchiamento del presente”, bisogna purtroppo constatare che i titoli più esplicitamente politici non sono stati tra i più forti. È il caso, ad esempio, dell’attivismo fin troppo elementare di Munnel (di Visakesa Chandrasekaram; Premio Speciale della Giuria), sugli strascichi discriminatori della pluridecennale guerra tra tamil e singalesi in Sri Lanka. Il vincitore, Le spectre di Boko Haram (di Cyrielle Raingou), nel captare la vita quotidiana nel nord del Camerun (soprattutto attraverso il prisma dell’infanzia) minacciata dal jihadismo che preme al confine nigeriano, funziona decisamente meno come film che come cinema: come oggetto discreto non ha molta compattezza (e non si fa problemi a ricorrere a un impiego piuttosto disinvolto del proprio stesso footage, usato per mettere pezze alla meglio ovunque servano, in senso anche spurio rispetto al sonoro), ma si lascia comunque apprezzare per il giusto atteggiamento che adotta verso la materia raccontata. Il tipico caso di presa diretta sul reale che fa arrossire di inadeguatezza la televisione – oppure: la televisione come sarebbe stata se, per dirla con Godard, fosse mai esistita.

Playland, Georden West

Per quanto riguarda la seconda delle due tendenze riscontrate all’inizio, si distingue ancora una volta 100 årstider, con il suo largo, impietoso uso dei vecchi video dell’ex ballerino di successo Bucchieri a confronto con un presente vuoto e disperato. Repertorio video delle passate glorie puntella anche Playland (di Georden West), ricostruzione postuma di straordinaria inventiva figurativa del primo gay bar di Boston, fondato nel 1937 e chiuso nel 1998. Come in una stanza rossa riammodernata da Murnau, i tempi e gli spazi si mescolano, e ciò che è marginale (compresi i più oscuri anfratti architettonici del locale) viene esteticamente nobilitato, quasi messo su un invisibile piedistallo. Lavoratori, pubblico e artisti vedono sfumare i rispettivi confini, e restituiti a un’eternità museale ma ancora palpitante. La libido scorre a fiumi, ma nemmeno una goccia non viene sublimata nella Forma artistica. La resa plastica è mozzafiato, e la nuova sacra trinità sempre più mainstream Class-Gender-and-Race viene articolata per una volta senza lasciare indietro nessuna delle tre componenti. Meritatissimo premio FIPRESCI, La Palisiada (di Philip Sotnychenko) contrappone presente e passato affiancando al digitale del primo il video volutamente sporco attraverso cui eventi del 1996 vengono mostrati come simulatamente “colti sul vivo”. L’incomunicabilità generazionale viene individuata come la radice del rapporto malato con la propria Storia di cui è affetta l’Ucraina; tale assunto viene poi sviluppato sposando da un lato letterarissime sofisticazioni concettuali, e dall’altro una sensibilità per le tessiture materiali di ambientazioni, arredamenti, fisionomie, costumi e quant’altro, con una felicità che ricorda sodalizi leggendari come quello tra la scrittrice Chu Tien-Wen e Hou Hsiao-Hsien (il cui stile qui torna alla mente anche per il modo in cui viene mossa la cinepresa, per i giochi di luce con le superfici riflettenti e altro). Per riallacciare storicamente passato e presente (qui rappresentati da due poliziotti coinvolti obtorto collo in un controverso caso di giustizia sommaria, e dai loro figli più di vent’anni dopo), è necessario non solo farsi strada nell’arzigogolata struttura narrativa (che abbonda in simmetrie e in romanzeschi tempi morti-ma-significativi), ma anche nella materialità dei dettagli, nel mobilio, nelle capigliature persino: è lì che si è rintanata, a tradimento, la storicità, ed è lì che, al fine di orientarsi e di rinvenire qualcosa come un tempo storico, bisogna immergersi sensorialmente. Colpisce anche three sparks della canadese-albanese Naomi Uman, tanto rigorosamente dialettico quanto imprevedibile e pazzerello. Tre parti: tesi, antitesi e sintesi. La prima è un diario in soggettiva accelerata alla Jonas Mekas; la seconda è una ricognizione antropologica sull’entroterra montano-rurale dell’Albania con pretese di oggettività in glorioso 16mm bianconero; la terza è una congerie di tranches de vie digitali, sempre nello stesso villaggio albanese, che decostruiscono tanto la soggettività della prima quanto l’oggettività della seconda, inventandosi così un’arguta terza via. Il bello è che, in questo schema così schematico, l’eccezione è sempre lì che bracca la regola, pronta a sopraffarla quando meno ce l’aspettiamo (e viceversa, gli svolazzi più arbitrari finiscono spesso per rimandare simmetricamente a un altro elemento in una parte diversa del film, facendo rientrare la struttura dalla finestra). Del resto, anche in una società estremamente tradizionale come quella dell’entroterra albanese, ancora ligia ai precetti del Kanun (testo prescrittivo di più di cinquecento anni fa), sono presenti sorprendenti tratti di fluidità di genere: una donna, se rinuncia alla propria sessualità, può letteralmente diventare un uomo, vestirsi da uomo, fare lavori da uomo e quant’altro.

New Strains, Artemis Shaw e Prashanth Kamalakanthan

Ed è sempre il video a salvare New Strains (di Artemis Shaw e Prashanth Kamalakanthan; Premio Speciale della Giuria) dall’essere una sterile sciocchezzuola mumblecore. Il rimettersi in scena dei due registi, coppia che si molla e si riprende mentre deflagrano le reciproche umane debolezze in un appartamento newyorchese durante il lockdown, lascia il tempo che trova, ma fortunatamente non si tratta che di un (passabilmente ruffiano e ammiccante) pretesto per esibire un pregevole approccio registico, dove una certa precisione visiva si amalgama meglio del previsto alla traballante tattilità di un supporto video volutamente rozzo. Insomma: il classico film di diploma dal contenuto banale che, grazie a uno stile che invece non lo è, finisce per avere un suo perché. Un po’ come Notas sobre un verano (di Diego Llorente), amorazzo estivo in terra natia di una venticinquenne asturiana trapiantata a Madrid (dove è già accompagnata a un altro). Storiella raccontata con piatta linearità e senza la minima pretesa di originalità, in equilibrio tra un registro naturalista che si tiene accuratamente esterno rispetto ai propri personaggi e una regia di studiata, minimale compostezza. Nondimeno, molte delle singole scene, sobriamente dirette (spesso con una singola inquadratura, o quasi), vengono impreziosite a volte da una luce singolare, altre da un’inattesa accensione recitativa, altre dal piglio efficacemente sintetico di un raccontare per pillole (non di rado in medias res), e così via, fino a conferire al film una volumetria che sulla carta non avrebbe. I tasselli si susseguono, inanellandosi meccanicamente uno dopo l’altro, mimando la forza d’inerzia che fa rientrare la protagonista nei ranghi di una vita normale, a settembre, con la stessa nonchalance con cui ne era uscita; l’indecisione (tra centro e periferia, coppia e adulterio, hard e soft, etc.) in cui sembra essere ontologicamente presa la protagonista, e con lei il film, si risolve da sola, senza rovesciarsi in decisione, in un transito zen da vuoto a vuoto.

Fino a pochi anni fa, il Tiger Competition era la cenerentola dell’IFFR: una manciata di titoli sepolta dalle molteplici sezioni di una kermesse ogni volta quantitativamente straripante e qualitativamente di enorme interesse. Il festival stesso sembrava non credere troppo nel concorso principale, e i suoi avventori lo frequentavano, in molti casi, solo quando capitava, dandone poi un feedback nella maggior parte dei casi solo tiepido o poco più. Da un paio d’anni in qua il Tiger Competition, oltre ad includere un numero quasi doppio di titoli, è diventato una cosa seria, uno degli appuntamenti imperdibili del circuito europeo, e una delle più attendibili occasioni di mappatura del cinema che è e che sarà.