Hard to Be a God

Nel capolavoro del 2013 di Aleksej German, È difficile essere un dio, tratto dall’omonimo romanzo del 1964 dei fratelli Strugackij, lo scienziato terrestre Rumata viene inviato in incognito sul pianeta Arkanar. Al fine di indicare la giusta strada per il progresso a una civiltà ancora nelle sue fasi medievali assume, insidiandosi nel tempo in quella società oscurantista, il ruolo di una divinità pagana. Un dio altezzoso e fiacco che si muove all’interno di un mondo sudicio e soffocante, strabordante di quell’incontenibile entropia che da sempre regola i rapporti tra uomo, società e natura. E a quello stesso caos silente, strisciante, è chiamato a rispondere l’Alto Commissario della Repubblica De Roller nell’ultimo, irriducibile lavoro di Albert Serra, Pacifiction, presentato in concorso (prima volta per il catalano in precedenza relegato a sezioni parallele) al 70° Festival di Cannes. Serra da sempre filma personaggi di potere, un potere multiforme che può indossare diversi abiti – questo è il primo film di Serra non in costume, o meglio, pare quasi essere il primo film in costume ambientato, però, nel presente – da quello religioso a quello monarchico, un potere messo di fronte alla propria disfatta, insufficiente ad assolvere la propria funzione ma non per questo meno illusorio per le menti corruttibili e infantili che ne sono abitate. Serra esplicita, anche servendosi di un uso della parola mai così prolisso, quel vizio intrinseco del potere, quel baillame fassbinderiano di erotismo e decadenza [fortissimo qui l’eco di Querelle de Brest (1982)] che domina il suo cinema con maggior evidenza da Història de la meva mort (2013) in poi; un disordine performativo, spesso masochista e dadaista, che il catalano adotta anche nei confronti del set e dei propri collaboratori. Emblematico in tal senso l’illuminante ed esilarante Waiting for Sancho (2008), backstage di El cant dels ocells (2008) girato dal critico e, in quel caso anche attore, Mark Peranson che filma un Serra delirante nell’urlare ai propri attori indicazioni recitative come “Blowjob! Blowjob! Vicks Vaporub!”.

“Il genocidio indiano ha creato grandi civilizzazioni. La cosa più terribile che abbia mai sentito era qualcuno che spiegava che anche se la fissione nucleare ha creato malattie, cancri alla tiroide, malformazioni congenite e altri orrori che hanno perdurato per generazioni, i programmi nucleari ci hanno anche garantito i soldi necessari a curare questi problemi.” dice De Roller in uno dei tanti night club – già spazio di tensione (omo)erotica in Cuba Libre (2013) – mosso dal tormento ossessivo di un’impellente minaccia atomica tanto inesorabile da sembrare già avvenuta, tanto dilagante da saturare con violenza i colori di una Tahiti crepuscolare, tiepidamente tropicale e glacialmente post-apocalittica. Ed è verso il finale, sempre in quel night club (o in uno dei vari dell’isola, poco importa che sia il medesimo in quanto ormai luogo pienamente metafisico), che i corpi, anzi, il corpo dell’istituzione, del potere, si rivela in tutta la sua vuota meccanicità. Se togliessimo la “t” da Tahiti e invertissimo la “a” e la “h” non sembrerebbe affatto così strano ritrovarsi catapultati in un’altra, ben nota, colonia francese che con la propria cultura vuduista a lungo ha influenzato l’immaginario dell’orrore cinematografico predisponendosi sin da Ho camminato con uno zombie (1943) e passando per il presagio catastrofista del Fulci di Zombi 2 (1979) come dichiarata metafora politica e anticolonialista – lo spettro del colonialismo è un peso che grava su tutto il film come sottolineato dal protagonista stesso quando parla di genocidio. Corpi che esprimono nient’altro che il loro essere inermi, al cospetto di un’attesa che solo De Roller vive, non tanto come un conflitto da affrontare quanto più come lenta assunzione di consapevolezza e (ir)responsabilità che un uomo, perfino un dio, deve accettare di fronte all’apocalisse. [Davide Palella]


Temperature

Non è propriamente esatto sostenere che al centro dei film di Albert Serra ci sia il potere. Certo, a una prima ed evidente lettura la sua poetica ricalca sicuramente una delineazione del dominio sempre spiazzante, desaturata, e proprio per questo ancora più inquietante, perché a sconfiggerci non sembra essere tanto la coercizione, ma l’abitudine.

A ben vedere però quello che a Serra interessa veramente non è tanto la sopraffazione nei confronti di un altro individuo o di un ambiente, quanto la gestione che quest’ultimo può avere del tempo. Il tempo, il tema che interessa il più classico dei registi, lo ritroviamo imperante come nucleo di uno dei cineasti più apparentemente non classici del panorama cinematografico mondiale. Sì, perché in ogni film di Serra tutti i personaggi possono permettersi di compiere le azioni nel tempo che riguarda loro, e non la narrazione. Questo naturalmente non implica che i suoi film siano anti-narrativi (termine da sempre improprio), quanto che la narrazione proceda parallela ai suoi personaggi, senza intaccarne la caratterizzazione. Ma se facciamo a meno del percorso dell’eroe, cosa rimane? È possibile raccontare il conflitto senza evoluzione? È possibile se si mette il tempo prima di qualsiasi altra cosa, se quindi non lo si gerarchizza neanche per un minuto.

In Pacifiction il tempo è un signore distratto, come scriveva il poeta, ma non è, in questo caso, un bambino che corre. Serra è sempre in ritardo rispetto alle tempistiche da manuale dell’affermazione di un concetto narrativo impresso a ogni personaggio, a cominciare naturalmente da De Roller, che non ha nessuna fretta né nel film, né tanto meno al di fuori di esso. Questo improbabile Alto Commissario della Repubblica aspetta al varco sia i co-protagonisti che gli spettatori di questo mare calmo fatto di dialoghi e caldo torrido, dandoci quanto meno l’impressione che la sua teleologia si esplichi tutta nel controllo che lui riesce ad avere su ogni cosa. Ma proprio in quell’istante, verso la fine, Serra devia sul percorso e ci sposta verso qualcun altro, un grottesco capitano proveniente probabilmente dalle fantasie di una commedia anni ’80, accennato prima e accentrato poi, calato in un contesto da isola del tesoro (a nessuno questo film ha ricordato 9 Doigts di F.J. Ossang?), annichilita dalla contemplazione dell’immagine staccata da tutte quelle che nel tempo filmico l’hanno preceduta per i minuti precedenti. Ed è qui, quando il film si compie e capiamo che l’isola è prima di tutto un luogo del pensiero, un regno della teoria, che il senso del tempo si realizza, che tutta l’operazione di un montaggio che non crea sintesi ma semplicemente continuità cronologica ci mostra come rispettare le unità aristoteliche non serva in realtà a niente, e che il vero potere è permettersi di avere tutto il tempo che si vuole, non per fare ciò che si vuole, ma semplicemente per dimostrare agli altri di averne. Tutto questo trasforma il sottotesto in qualcosa che non può essere spiegato, che non può essere interpretato, ma solo enumerato, esposto, rendendolo paradossalmente narrazione.

Sartre parlando di Le serve di Jean Genet diceva che il male è un niente che produce se stesso sulle rovine del bene, e che il bene è solo un’illusione. Nel mondo rovesciato, “dove il vero è un momento del falso”, Albert Serra ha capito che raccontare il sottotesto è l’unico modo rimasto per fare cinema nuovo. Per questo se dovessimo chiedergli il perché di una messa in scena e di un uso dei dialoghi impostati in tal senso, troveremmo il suo rifiuto di rispondere, perfettamente in linea con questa riflessione. “Cut!”, avrebbe detto John Ford. Un classico. [Mario Blaconà]