Si parte da una straordinaria vertigine. Niccolò Falsetti e Francesco Turbanti, regista e attore protagonista (ma anche co-sceneggiatori, insieme a Tommaso Renzoni) di Margini suonano nella band punk dei Pegs e per l’esordio dietro la macchina da presa di Falsetti immaginano questa storia di ribellione nella provincia toscana, in cui un gruppo street punk di Grosseto sogna il grande colpo per evadere dall’apatia di provincia. Margini in questo senso è quasi un prodotto sperimentale che sa di autofiction. Gli elementi su cui riflettere sono già tantissimi, a partire, forse, proprio dal desiderio di Falsetti di spingersi in luoghi inesplorati di certo cinema italiano, salvo per il lavoro di autori consolidati come Moretti, con i dovuti distinguo. Ma non basta.
Appoggiarsi ad una struttura del genere non esaurisce le questioni sollevate da un sistema di segni dal piglio anarco-punk come quello di Falsetti. Perché se è vero che, anche qui, il punto di partenza non può che essere la solita domanda, “chi sono i miei padri?” che anima tante opere prime, è evidente che quella di Margini sia una risposta ribelle. Perché Falsetti fugge fuori campo e racconta l’impresa dei Wait For Nothing, il loro tentativo, folle, di invitare i Defence, famosissimo gruppo punk americano a suonare a Grosseto, pur di ravvivare una provincia meccanica ormai culturalmente comatosa e spingere l’età adulta un po’ più in là, con il respiro di un road movie americano. Al massimo, quando guarda ad uno spazio “italiano” che possa fornirgli strumenti per costruire il suo racconto si rivolge ad un contesto poco battuto, quello della comedy indie “d’autore” anni ’80 e ’90. Non è una decisione scontata. Dietro la presa di posizione, lucidissima, di Falsetti c’è il tentativo di spingere in primo piano un nuovo immaginario, di elevare a canone, un insieme di segni che canone non sembra ancora essere. E lo fa sporcandosi le mani, citando quegli spazi nei momenti più riusciti, come l’incontro con l’assessore agli eventi di Grosseto o la telefonata agli stessi Defence, clamorose illuminazioni che sembrano davvero prese di peso da un film di Nuti.
Ma così le priorità non possono che cambiare. Perché forse l’obiettivo non è tanto cercare i propri padri, ma ucciderli. Margini porta in primo piano uno spettro che da tempo si aggira nel cinema italiano, quello dello sguardo (neo)realista, delle sue pratiche, delle sue attese, che sembrano inscindibili dall’immaginario cinematografico italiano, a tal punto che persino i prodotti di “genere” più recenti non riescono a rinunciarci e allora ecco che, ad esempio, il Jeeg Robot di Mainetti non esce mai al di fuori delle classiche periferie Pasoliniane. È lì, allora, la massa critica, è quello il meccanismo da disinnescare per far emergere il proprio sguardo, la propria voce. Ma bisogna agire con metodo, chiarezza, abbracciando il paradosso di un film che racconta un’umanità isolata ma lo fa utilizzando una forma vivacissima, libera. Così Margini mostra in diretta il cortocircuito del canonico immaginario italiano. Da un lato lo deforma, a tal punto da ambientare la storia in uno spazio così indefinito da poter essere tanto Grosseto quanto Akron, sperduto paesotto in Ohio, dall’altro contraddice l’intrinseco elemento “realista” della componente temporale, facendo muovere i personaggi in un 2008 che sembra già vecchio di dieci anni.
È un percorso ostico, quello di Falsetti, che a volte si irrigidisce, o, peggio, finisce invischiato in quegli spazi che vorrebbe distruggere, intrappolato negli appartamenti popolari, a discutere di soldi o di crisi quotidiane, ma che comunque procede con maturità spiazzante fino a svelare l’essenza dietro allo sguardo (neo)realista, la verità del dramma, l’emotività grezza, il nulla che attende nel fuori campo. E allora forse Margini non vuole davvero uccidere il padre ma liberare un immaginario dalle sovrastrutture, dai fraintendimenti che a volte ne hanno contraddistinto le riletture più recenti, che lo hanno reso, forse, un filtro per proteggere lo spettatore da ciò che non si vuole vedere. In questo senso, allora, tutto sembra davvero giocarsi nell’ultimo atto, in un concerto apice di un racconto che pare una straordinaria allucinazione collettiva (e non basta, forse, questo a mettere in crisi il realismo del nostro cinema?), dopo la quale tutto sembra poter cambiare. Ma tutto resta com’è, anzi, persino il punk rischia di diventare un gioco da bambini messo a confronto con l’epica di Se Bruciasse La Città che esplode sui titoli di coda.