Ci sono film che agiscono come sortilegi, usando il potere del cinema – la sua capacità di reiventare le possibili realtà – per rompere incantesimi a cui siamo (o siamo stati) soggetti. Non è un caso che in Rossosperanza, sorprendente opera seconda di Annarita Zambrano, fin dalle prime immagini appaia lo strumento magico di cui si servirà la giovane protagonista Nazzarena: un disco che ruota liberando musica, un oggetto che al contempo riporta una data storica precisa, il 1990, e l’atto attraverso il quale il tempo potrà essere liberato, lo scretchare avanti e indietro lungo i cerchi dell’incisione. La musica si trasformerà in rumore, sgradevole da principio, ma altre orecchie sapranno farlo diventare musica e iniziare nuove danze.

Fin dalle prime immagini, dai look sgargianti dei protagonisti, si viene catapultati nella trappola degli agiati anni ’90: genitori irretiti dall’edonismo per lenire le ferite politiche del passato, adolescenti cresciuti nell’agio a cui rimane l’esplorazione del proprio desiderio come unica forma di rivolta in un tessuto sociale distrutto. Così si uniscono le storie di Nazzarena (un’intensa Margherita Morellini), sociopatica che attenta la vita del Vescovo amico di famiglia, Alfonso (un vibrante Leonardo Giuliani), ragazzo che non può reprimere la sua omosessualità di fronte a un padre democristiano, Marzia (l’esuberante Ludovica Rubino), indirizzata a diventare una delle baby dive di Non è la RAI possedendo il desiderio di quei “papi” pronti a dominarla, e Vittoriano (un ineffabile Luca Varone), che raccoglie il trauma collettivo di una generazione che ha visto sostituirsi gli affetti e i rapporti umani con la merce da consumo. Il loro agire nel presente è limitato ad esercizi di controllo del loro sé in una casa di rieducazione per ragazzi alto borghesi, il loro passato continua a travolgerli gettandoli in un oceano di emozioni contrastanti, il loro unico nemico sembra quel “padre” che ritorna con diverse sembianze ma nel corpo di un unico attore (Andrea Sartoretti), a simboleggiare un’Italia pronta a cadere nella trappola del controllo berlusconiano. Le loro backstory sono il centro di un film che si permette di mescolare l’animazione (l’inserto in rosso sangue disegnato da RAK) alla fiaba nera, passando al racconto estivo, mai stato tanto cupo e rivelatore dei sintomi che i padri hanno già passato ai figli (quale descrizione migliore delle violenze sottili non dette della scena dello strip poker?).

Dopo aver affrontato un tema dibattuto come i brigatisti fuoriusciti dall’Italia in seguito alla lotta armata (Dopo la guerra, presentato a Un Certain Regard a Cannes nel 2018), Annarita Zambrano continua a inventare un nuovo cinema politico, mettendo in scena l’unica sovversione rimasta alla generazione X, quella che oggi è sfociata nella liberazione dei corpi e nelle lotte LGBTQIA+. Rossosperanza è un prequel del presente, dedicato a chi ha compiuto dei gesti di ribellione solitari e proprio per questo poco ricordati, lontani dal potersi appoggiare su quelle reti sociali a cui si sono sempre ancorati gli attivisti degli anni precedenti. Nell’anno zero della nuova coscienza politica, i nuovi rivoltosi sono degli outsider che solo nell’amicizia sedimenteranno una coesione instabile e traballante, come lucciole incapaci di illuminare il futuro ma espressione di quella libertà che rifugge ogni controllo. Per Zambrano, che guarda al grande cinema politico di Bellocchio, la ribellione passa prima di tutto attraverso la scelta di reinventare la narrazione cinematografica, liberandola dall’usuale realismo per andare incontro a momenti grotteschi (l’avvelenamento del vescovo, le rappresentazioni dei genitori, vera incarnazione del Potere) che si aprono a squarci di lirismo quando la gabbia di una tigre è ricreata dalla pura luce, simbolo di qualcosa da cui è molto difficile evadere non eclissandosi nel buio. E forse dal buio questi quattro ragazzi non hanno mai smesso di fare rumore e hanno imparato a farci ballare su nuovi passi.