La lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi.

Warren Buffett

Il titolo dice tutto, chiaro, diretto, radicale. Questo Armageddon Time si riferisce all’inizio dell’era del disimpegno, a quel concentrato mostruoso di reazione che sono stati gli anni 80. Nell’ultimo film di James Gray, il suo più autobiografico senza dubbio, l’attacco a un certo tipo di società statunitense è non solo evidente, ma anche rabbioso e incurante di essere scambiato per partigiano.

Prendendo spunto da alcuni episodi della sua infanzia Gray dipinge un quadro sconsolante sull’inizio dell’era reaganiana, su come l’individualismo imperante passi fulmineamente dal generale al particolare, inserendosi nei gangli relazionali di questa famiglia di religione ebraica che abita una delle tante zone residenziali di una New York che stava per esplodere in tanti piccoli pezzi fatti di speculazioni e velocità, finiti gli anni 60 e 70, finito, e sconfitto, quel periodo di prova dei “trenta”, ossia il trentennio successivo alla Seconda Guerra Mondiale, in cui la società intera, con esiti diversi, provò a fondare il proprio futuro sulla condivisione e l’affermazione dei diritti civili.

Ogni aspetto di questo individualismo universale in Armageddon Time penetra in tutte le classi sociali. Dai genitori di Paul, questo ragazzino che anche nell’aspetto ricorda Gray, progressisti a parole ma reazionari nei dati di fatto nel tentare di vendere al proprio figlio una condizione di benessere basata esclusivamente sull’accumulo di risorse, all’amico afrodiscendente, che contro il predominio del “white power” si rinchiude in un isolazionismo disperato (“nessuno pensa a me, solo io posso pensare a me stesso”), per arrivare anche ai due nonni, insegnanti colti, esuli dalle persecuzioni razziali in Europa, che nonostante tutto spingeranno Paul ad abbandonare “il disagio dell’istruzione pubblica” e ad entrare in una scuola privata, ricca di quella gioventù arringata nella scena finale da un Fred Trump che sprona tutti ad aggredire il mondo per disegnarlo a proprio piacimento, incuranti dell’altro e sopra ogni cosa.

Ma è nell’ultimo colloquio che Paul ha con suo nonno (un crepuscolare Anthony Hopkins), che arriviamo all’essenza di questo film. Nella difesa strenua delle minoranze che il senior progressista tenta di insegnare allo junior, non vengono tenuti in conto i fatti, che rimangono sussidiari a un individualismo automatico, d’abitudine, facendo in modo involontariamente che i dialoghi perdano tutta la loro efficacia, tutta la loro credibilità, e che si trasformino solo in slogan. Un monito fortissimo per gli anni avvenire, oggi soprattutto.

Non è un caso che con Armageddon Time Gray metta in scena il suo film più politico e allo stesso tempo più personale (forse paragonabile in questo senso solo a Little Odessa), perché proprio in questo binomio, in questo legame inscindibile tra macro e micro, sta il suo cinema, in cui anche l’evento più piccolo si ingrandisce e riesce a rappresentare il mondo, e in cui anche l’avvenimento più esorbitante riesce, miracolosamente, ad assumere un ruolo mostruosamente intimo.

(Piccola nota a margine: la figura della sorella e del padre di Donald Trump ci mostrano, a documentazione prettamente storica, che questa disgustosa famiglia di affaristi era presente in ogni tessuto dell’alta borghesia americana già in tempi non sospetti, per tutti coloro sorpresi e meravigliati dal fatto che un individuo del genere sia arrivato al potere. Non c’è proprio nulla da stupirsi, purtroppo.)