“Possedere il mondo sotto forma d’immagini significa, esattamente, risperimentare l’irrealtà e la lontananza del reale”. Così scriveva Susan Sontag in Sulla fotografia, e da lì sono partiti Martina Parenti e Massimo D’Anolfi per pensare l’architettura del loro ultimo film, Guerra e pace, presentato nella sezione Orizzonti della 77° Mostra d’arte cinematografica di Venezia. Nato come un documentario sul mondo della diplomazia contemporanea, si è rapidamente trasformato in un lucido film saggio sullo statuto dell’immagine in tempo di guerra e di (pur sempre precaria) pace, che si snoda in quattro capitoli, tra passato remoto e futuro. Un’idea apparentemente semplice di montaggio (lontana dal tentativo più ricercato e più lirico di Spira Mirabilis, il loro film precedente) che appare particolarmente giusta nel restituire la stratificazione culturale del pensiero, andando a dissotterrare la materia su cui si basa un immaginario condiviso, e leggendo la storia delle immagini di guerra (e il nostro rapporto con esse) alla luce del cambiamento epocale attraversato dallo stesso medium cinema.

Il film prende avvio da un caso, estremamente specifico, le immagini girate durante la guerra in Libia nel 1911: un momento in cui il cinema è maturo e strutturato per arrivare in maniera capillare al pubblico diffuso. L’artificiosità delle scene di guerra girate perlopiù dagli oppressori e diffuse nei cinegiornali del tempo (al fine di formare un giudizio su quanto stava accadendo), vengono analizzate e scomposte dallo sguardo clinico degli studiosi contemporanei e degli stessi registi che ne isolano momenti specifici in un montaggio volto a sottolineare non tanto l’artificiosità quanto il potere seduttivo proprio del mezzo cinema. Gli sguardi dei bambini libici che sorridono in maniera disarmante alla macchina da presa diventano il culmine di una guerra che si veste di pace e di un cinema che diventa occhio del potere, in grado di sottomettere e umiliare più di un fucile.

Di fronte alla finzione come elaborazione imprescindibile per svelare o celare il reale, si muove un dittico – composto da un passato prossimo e un presente – in cui si prendono in analisi le attuali immagini di guerra, dal punto di vista di chi le riceve (i funzionari dell’Unità di Crisi della Farnesina) e di chi le produce (gli allievi della scuola dell’immagine di guerra ECPAD in Francia). Da una parte c’è il flusso costante e quasi indistinto che genera tramite la presupposta visione dell’ovunque il generalizzato senso di cecità. Negli uffici della Farnesina, l’immagine perde la sua aurea simbolica per ridursi a indice, segno posto su un gioco di mappe che cercano di tradurre il caos delle zone di battaglia. Dall’altra parte, nelle aule dell’esercito francese, si insegna meticolosamente a leggere le immagini di guerra e comporne delle nuove, rigorosamente dalla parte dell’esercito. Poco a poco l’esercizio (che parte dalla gestione dei propri account sui social network) porta alla simulazione di una guerra che potrebbe dirsi uscita da un blockbuster americano, non c’è traccia di realtà, tutto diventa pura riproduzione di un immaginario già ampiamente consolidato.

Guerra e pace, accolto con grande entusiasmo da critica e pubblico al Lido, è un collettore di dispositivi già esplorati (e sempre più perfezionati) dalla coppia di documentaristi, dal rigoroso lavoro sull’archivio rispettoso di formati e supporti, al documentario d’osservazione di matrice wisemaniana innervato da caratteristi degni della commedia italiana, fino alla distanza farockiana di un cinema che riflette prima di tutto sulle proprie immagini. Ed è qui che si arresta la riflessione, in un futuro in cui lo statuto del cinema sarà duramente messo in discussione: sopravvivranno le parole dei testimoni, le immagini dei corpi mutilati ancora mosse dalla voglia di vivere, il movimento instancabile delle braccia di una catena umana che salva i più piccoli dalla morte per proiettarli verso l’avvenire? Non c’è uno schermo a limitare le proiezioni dell’Archivio della Croce Rossa internazionale, la memoria risorge direttamente dalle pellicole e inonda lo spazio virtuale che noi saremo disposti a concedere loro. Ed è proprio in questo ambito che si muove il cinema coerente e inoppugnabile di D’Anolfi e Parenti, senza imporre mai nulla allo spettatore ma offrendo una riflessione condivisa entro cui fare i conti con la nostra eredità culturale e tentare di metterla in crisi, una liberazione dall’immaginario per poter far risorgere la bellezza primigenia del cinema.